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giovedì 26 dicembre 2024 ..:: PianoSofia 2022 - Da Odessa con amore ::..   Login
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 PianoSofia 2022 - Da Odessa con amore Riduci


 

 

DA ODESSA CON AMORE

Silvia Lomazzi

Giunti alla terza serata del Festival milanese, mi sembra giusto dire qualcosa sullo splendido pianoforte presente in sala. Quest'anno a disposizione dei pianisti c'era uno strumento di grandi qualità, un grancoda Shigeru Kawai EX. L'azienda produttrice giapponese Kawai suole adottare un tipo di produzione semi-artigianale, posta in atto con materiali di primissima scelta da artigiani specializzati, all'interno di una fabbrica dedicata. Sua particolarità e vanto è la ricerca di una nuova tecnologia per la meccanica, per la quale vengono adoperati materiali compositi come fibra di Carbonio e altri. Questi garantiscono stabilità, uniformità, scorrevolezza, oltre a essere inalterabili e indeformabili alle fluttuazioni di umidità. I tasti bianchi sono in Neotex, un materiale esclusivo, utilizzato per la copertura dei tasti, in fibre di cellulosa, che presenta la stessa levigatezza dell'ebano e dell'avorio naturali, con una superficie semi-porosa in impasto di silice che assorbe gli oli naturali e la traspirazione delle mani evitandone lo scivolamento. Resiste alla rottura e allo scolorimento per molti anni ed è usato sia per i tasti bianchi che per i tasti neri, così da avere una sensazione costante attraverso tutta la tastiera. Nel modello EX questi ultimi sono però in ebano. La serata del 4 ottobre sembra avere tutte le carte in regola per essere indimenticabile. Per i conoscitori del mondo pianistico, un nome come quello di Boris Bloch s'impone all'attenzione per diversi motivi, chi invece lo ignora non si sarà certo pentito di essere tra il pubblico. È stato definito dal critico Marcel Reich-Ranicki come un "poeta in tempesta" e da Sylvia Adler "non solo un ardente creatore di suoni, ma soprattutto un appassionato ricercatore della verità".

Ed è precisamente il tema della ricerca della verità a dominare, a rivelarsi come punto cardine di PianoSofia. L'argomento dello spirito libero è esordito sin dal primo appuntamento di PianoSofia 2022, quell'andare oltre verso l'investigazione della verità, termine impegnativo, che ha animato la dissertazione della filosofa Florinda Cambria in "Lo spirito libero tra virtù e virtuosismo". Non è esclusa dal guardo anche la ricerca di libertà espressiva che un pianista persegue nel corso di una vita, questo può allora essere visto come un "Wanderer" nell'atto di viaggiare nelle profondità di uno strumento come il pianoforte, sconfinato per la letteratura e la capacità polifonica. Ma chi è Boris Bloch? In estrema sintesi un uomo che, quando nel 1978 vinse il premio Busoni a Bolzano, era già in alto nelle vette del suo percorso artistico. Un vero cittadino del mondo, dalle sconfinate frequentazioni, nato nella metropoli ucraina di Odessa. Ricevette la sua formazione pianistica presso il Conservatorio Čajkovskij di Mosca, principalmente dal pianista e insegnante Dmitri Alexandrowitsch Bashkirow, diplomandosi poi nel 1973. Un anno dopo, nel 1974, lasciò l'Unione Sovietica per emigrare a New York. Vive in Germania dal 1985, prima a Essen e poi a Düsseldorf. Strumentista di vaste frequentazioni, domina un repertorio che comprende le opere più importanti scritte per il pianoforte, oltre a importanti opere di musica da camera.



Parliamo di autori come Domenico Scarlatti, W.A. Mozart, L.v. Beethoven, F. Chopin, cui ha dedicato molte delle sue energie (occupano un posto di rilievo nei suoi concerti, oltre che le Variations Brillantes Op. 12, le Mazurke, i Notturni e le Polacche). Non mancano F. Liszt, S. Rachmaninoff, J.S. Bach, F. Schubert, F. Mendelssohn Bartholdy, R. Schumann, J. Brahms e altri. La sua intensa attività concertistica lo porta in tutta Europa, dove collabora con molte famose orchestre. Tra gli eventi musicali internazionali cui partecipa, citiamo il Festival di Berlino, le Settimane musicali di Merano, il Festival musicale di Rheingau, il Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo, i Festival Chopin di Duszniki-Zdrój in Polonia e Marienbad nella Repubblica Ceca. È ospite fisso al Ruhr Piano Festival, all'estate carinziana a Ossiach - Villach, alle rarità della musica per pianoforte a Husume ai festival dell'Estate di Varna e dei Palazzi di San Pietroburgo. Nel 1991 ha fondato il "Concerto di Capodanno con Boris Bloch", in forma di recital pianistico, che dal 2004 si svolge nella Philharmonie Essen dal 2004 (in ogni edizione si registra il tutto esaurito). Non solo pianista ma anche direttore d'orchestra, ruolo in cui si è distinto particolarmente all'Opera di Odessa, tra il 1993 e il 1995. Più di recente ha diretto nell'ambito delle Serate d'inverno sulla Ruhr a Essen, evento da lui stesso creato. Bloch è dal 1985 professore di pianoforte presso la Folkwang Hochschule (Duisburg), tra i suoi studenti più noti ci sono Nikolaus Lahusen, Peter Josza e Ewgeni Bokhanov.

Nel 2006 ha assunto la carica di Direttore Artistico del Primo Concorso Pianistico Internazionale Karl Bechstein, mentre nel 2007 è stato insignito del Premio per l'Educazione Musicale della Città di Duisburg, grazie alle sue rimarchevoli attività di educazione musicale. Tiene regolarmente corsi di perfezionamento presso l'Accademia Estiva Internazionale Mozarteum di Salisburgo e corsi estivi presso l'Accademia Musicale Franz Liszt di Weimar. Boris Block è anche un ricercato membro di giuria in concorsi internazionali, determinante nell'ideazione del primo e secondo Clara Schumann Concours a Düsseldorf. Dopo gli studi a Mosca, è risultato vincitore di concorsi pianistici internazionali: primo posto alla Young Concert Artists International Auditions di New York nel 1976, medaglia d'argento all'Artur Rubinstein Piano Masters Competition di Tel Aviv nel 1977 e primo premio nel 1978 al prestigioso Concorso Pianistico Internazionale Ferruccio Busoni di Bolzano. Grazie allo speciale impegno profuso nelle opere per pianoforte di Franz Liszt, Bloch, è stato insignito del Golden Badge of Honor dalla Società Internazionale Liszt di Vienna. Altrettanto importante si è rivelato il suo contributo discografico, con alcune registrazioni che sono diventate di riferimento, in particolare quelle delle parafrasi d'opera di Liszt, che hanno ricevuto il Grand Prix International du Disque Liszt, la registrazione di opere per pianoforte di Mussorgsky, che ha ricevuto il premio Excellence Disque e il "live" del "Concerto dell'incoronazione" di Mozart e del Terzo Concerto per pianoforte di Čajkovskij nella sua versione completa.


DIALOGO CON FRANCO PULCINI E LUCA CIAMMARUGHI



Accanto a Ciammarughi stasera troviamo Franco Pulcini, figura importante nel panorama musicale del nostro Paese. Nasce a Torino nel 1952, dove si laurea sotto la guida di Massimo Mila e Giorgio Pestelli. Critico musicale dell'Unità dal 1980, collabora con la RAI e le principali riviste italiane. Vivi consensi hanno riscosso i suoi studi su Leos Janacek. Dal 1979 insegna Storia della Musica al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, città in cui vive. Questa sera con Boris Bloch viene presentato un pianista dotato di una ben riconoscibile identità culturale e artistica, ma anche esistenziale, che tocca temi molto vicini alla nostra attualità. È nato a Odessa, in Ucraina, ma la sua cultura pianistica è moscovita, essendo figlio artistico del Conservatorio Čajkovskij di Mosca, appartenuto alla grande scuola di Dmitri Bashkirow e Tat'jana Nikolaeva. In un colloquio con Luca Ciammarughi, Block ha dichiarato di sentire molto forte la spaccatura tra la sua città natale, recentemente assai colpita dalla guerra in atto, e la sua identità russa moscovita. Una scissione che è per lui fonte di riflessione e si rivela anche in ciò che suona; infatti, il recital è iniziato con una specie di drammaturgia scaturita dall'accostamento due brani, il primo del compositore ucraino Lysenko e il secondo di Chopin (rispettivamente l'Elegia N. 3 e la Polacca in fa diesis minore Op. 44). Entrambi i brani sono stati scritti in fa diesis minore, una tonalità malinconica. In particolare, l'Op. 44 di Chopin è stata appositamente scelta per il fatto che al suo interno ci sono due elementi: un inizio che evoca l'invasione russa della Polonia, dopo che in questa ci fu la rivolta di novembre nel 1830-31, in opposizione all'impero russo.

I moscoviti reagirono sopprimendola brutalmente, cosa che colpì fortemente Chopin, partito dalla Polonia alla volta di Vienna e poi Parigi, con dentro un sentimento di nostalgia per la patria ancora maggiore, soprattutto nel momento in cui la Polonia veniva colpita dalla soppressione della ribellione. Nell'impaginato di sala si è proseguito sotto il segno della classicità con Mozart, perché quest'autore, come Bloch raccontava a Ciammarughi, è uno di quei compositori che, accanto ad Haydn e Beethoven, nel mondo russo novecentesco e nelle scuole pianistiche di Mosca e San Pietroburgo non è mai mancato, in nome di quel culto della classicità che in Russia è sopravvissuto a tutti gli sconvolgimenti del '900, tranne forse in un breve momento dopo la Rivoluzione d'Ottobre del 1917. In quel frangente diversi artisti, come il grande poeta Aleksandr Blok o Vladimir Majakovskij, concepirono l'idea di distruggere la classicità, i musei, di far piazza pulita del passato per dar voce a nuove avanguardie e a qualcosa che facesse "tabula rasa" della tradizione. Questo avveniva in ogni campo dell'arte, perciò anche nella pittura con Kandinsky, Malevič. Fu però un fuoco di paglia, la classicità ritornò, benvenuta da un lato ma dall'altro a volte strumentalizzata. Pensiamo all'utilizzo che Stalin fece di tutta una musica di stampo eroico, sostenendo che fosse giusto proporre al popolo russo un certo tipo di repertorio classico, per esempio il Beethoven eroico, quello della Terza o Quinta Sinfonia, non certo l'ultimo, molto più enigmatico e proiettato verso il futuro.



In Russia venivano promossi i grandi lavori di stampo monumentale scritti da Čajkovskij, come il Primo Concerto per pianoforte e orchestra, composizione che i pianisti portavano sovente ai concorsi come cavallo di battaglia. Sicuramente non Stravinskij, che venne ben presto bandito (ad eccezione forse di Petruška). I due relatori, forti delle loro esperienze formative, hanno messo in piedi una panoramica storica sul mondo russo che è servita ad agganciare il presente al passato, e nel presente chi troviamo? La figura di Boris Bloch, il grande pianista che abbiamo avuto il piacere e l'onore di poter ascoltare. Di lui è stata ricostruita la biografia, ma soprattutto chiarito il perché abbia abbandonato la Russia; lo stesso pianista a fine concerto ne ha parlato con accenti di grande umanità. Lo strappo dalla terra natia si verificò nel 1974, quando aveva ventitré anni, a causa delle sue origini ebree, che per lui rappresentarono un grande ostacolo, come per molti altri artisti. Vittima di un antisemitismo che in epoca zarista e poi sovietica andava e veniva, pensiamo al famoso Complotto dei Medici negli anni '50 del Novecento, Stalin imperante. Boris Bloch vinse il secondo premio al concorso interno dell'Unione Sovietica, una specie di trampolino di lancio verso il Concorso Čajkovskij, ma non fu lui poi il prescelto, poiché furono individuati altri pianisti da mandare a quel concorso ufficiale internazionale, tra l'altro classificatisi dietro di lui. A causa di questa e di tutta una serie di piccole e grandi ingiustizie, si rese ben presto conto di essere bersaglio di una discriminazione antisemita, cosa che nel corso del pianismo novecentesco non è certo una novità.

Pensiamo alla grande Maria Grinberg, il cui marito e padre furono brutalmente assassinati in un periodo di caccia alle streghe, ma anche a Lazar Berman, che nelle sue memorie sottolinea come le origini ebree non lo abbiano certamente aiutato. È un discorso che si ricollega a un altro ancora più vasto (e qui veniamo al lato più filosofico della serata), quello della Weltanschauung, cioè la concezione del mondo, della vita, e della posizione in esso occupata dall'uomo. Durante l'epoca dell'Unione Sovietica, e ancora oggi (data la persistenza di elementi che da quel mondo derivano), si poneva il cruciale tema del controllo operato dallo Stato sugli artisti, una materia che presenta un doppio taglio. Da un lato l'URSS sorvegliava sulla vita privata dei musicisti in maniera ossessiva, sapeva tutto di loro, per esempio che Svjatoslav Richter teneva nella sua stanza da bagno dei profumi francesi. Lo concedeva solamente a lui perché era considerato una specie di semidio. La Russia dell'epoca permetteva qualcosa soltanto a quei musicisti che rappresentavano nell'immaginario collettivo delle divinità, degli eroi nazionali, un po' come gli astronauti o certi sportivi, salvo poi punire e censurare terribilmente in tutti gli altri casi. Anche gli artisti inviati in tournée all'estero, lo racconta Vladimir Aškenazi, venivano scortati da un cosiddetto "compagno", in realtà una spia del KGB, che addirittura nella maggior parte dei casi dormiva nella stessa stanza d'albergo. Negli Stati Uniti un pianista russo non poteva andare in giro da solo. Dall'altro lato c'era però il forte impulso dato all'arte, in particolare alla musica, non solo nell'URSS ma anche nei paesi satelliti come la Romania, Cecoslovacchia e altri.

Luca Ciammarughi

L'idea dell'arte si affermava come un qualcosa in grado di forare il grigiore della quotidianità, rappresentando un elemento salvifico, totalizzante e assoluto. Per questo il grande violinista Yehudi Menuhin parlò di "crudeltà e bellezza", volendo riassumere il clima imperante nella Russia in quegli anni. Tutto ciò che un artista occidentale deve oggi gestire in termini di autopromozione e marketing, elementi attualmente problematici, a quei tempi veniva preso in carico dallo stesso Stato russo, cosicché l'artista doveva esclusivamente occuparsi della purezza della propria arte, non macchiandosi con altri aspetti considerati meno nobili. Su questo tema il grande documentarista Bruno Monsaingeon ha fatto molto riflettere Ciammarughi, dicendogli che l'Unione Sovietica era sicuramente un Paese in cui l'artista veniva controllato, censurato e sottoposto ad angherie alle volte terribili. Tuttavia, siamo proprio sicuri che nel nostro libero occidente non esista una forma di schiavitù dell'artista? Ciammarughi ritiene che questa sia sotto gli occhi di tutti noi, basti per esempio vedere quanto il lato economico oggi condiziona il percorso di un artista. Pagarsi una registrazione, avere un agente, sono cose che costano. Oggi, tutto quanto è riconducibile al marketing caratterizza molto più del 50% della vita artistica. Si tratta di una riflessione capitale in questo momento, una medaglia con due facce: se da un lato osserviamo come le dittature provochino dei problemi a un artista, dall'altro un grande direttore come Gennadij Roždestvenskij affermò "Se la vite cresce in un terreno ingrato, gessoso, sassoso, il vino è migliore poiché le radici fanno fatica a penetrare nel terreno.

Questo è senz'altro vero, quanto costi è un'altra storia." A volte siamo di fronte al fatto che in certe condizioni, anche di sofferenza, ci sono artisti che riescono a dare il meglio di se. Svjatoslav Richter disse: "Io ero incredibilmente ispirato quando suonavo nel 1944 a Leningrado sotto i bombardamenti." Sembra una cosa quasi assurda, ma probabilmente quel misto di paura ed eccitazione, quel contatto con la morte suscitavano dal punto di vista artistico, dello scatenarsi di forze primordiali, uno stimolo formidabile. Indubbiamente nell'Unione Sovietica c'è stata una sorta di divinizzazione dell'artista, spesso dell'interprete. Su un punto di vista diverso si poneva Dmitrij Šostakovič, compositore che è sempre stato piuttosto cauto, anche nei confronti dei più grandi solisti. Su un suo concerto suonato dal violinista David Oistrakh, dichiarò che c'erano delle cose buone e altre meno, toni non entusiastici quindi, da persona estremamente esigente qual era, nonostante l'indiscutibile grandezza del violinista. C'è anche una sua osservazione in cui dice che gli interpreti non sono tutto sommato artisti da considerare assoluti genii dell'umanità, perché in realtà il loro modo di leggere un'opera è quasi sempre legato alla storia, al momento, e di conseguenza la loro azione è più caduca rispetto alle composizioni che esegue. Ha dunque sottolineato il fatto che l'interprete non è proprio da considerare un artista di serie A. Intenzione di Franco Pulcini è stata il raccontare l'intera storia della musica Russa in cinque minuti, proposito a mio parere arduo e anche coraggioso.

Franco Pulcini

C'è una data molto importante in questa, il 1647, anno in cui riempirono cinquanta carri di strumenti musicali facendone un grande falò accanto al fiume Moscova. Li bruciarono ritenendo opera del diavolo qualsiasi musica che non avesse a che fare con la gloria di Dio, tutto il resto era completamente da condannare. Si tratta di una storia molto recente, come lo è anche quella del cristianesimo; in tutto il Settecento, sino al primo Ottocento, la musica era praticata dai servi della gleba, le orchestre erano tutte quante fatte da schiavi. Di conseguenza si poteva trovare sui giornali: "Vendo cocchiere" o anche "Vendo violinista" e altro. Alcuni potevano studiare danza diventando poi dei grandi ballerini, ma il loro padrone li poteva ritirare dalle scene quando voleva. In un certo senso ciò che è avvenuto nelle epoche successive non è che il rifacimento di una tendenza presente già nel regime zarista, cioè l'azione di controllo sugli artisti. Nei primi tempi della sua carriera, Mstislav Rostropovič non ha mai visto di che colore fossero gli assegni che gli venivano dati nei vari Paesi dove teneva i concerti, questo perché andava direttamente a ritirare il compenso. Non si deve pensare che questo modo di fare sia andato avanti per poco tempo. Pulcini ha avuto la fortuna di conoscere Jurij Ljubimov, che ancora una quarantina d'anni fa non vide mai i soldi che erano stati pagati per le sue regie. Sicuramente la prima epoca sovietica è stata un momento di grande diffusione dell'arte, in cui si è pensato che questa dovesse in qualche modo aiutare lo sviluppo e la rivoluzione, sostenere l'idea di cambiamento del mondo che c'è stata con la rivoluzione comunista.

Tuttavia, questo è durato molto poco. Esiste un'altra data molto importante nella storia della musica sovietica, che è il 1929, anno della morte di Djagilev, lo stesso in cui Stalin prese in maniera molto forte il potere. Quello è stato il momento in cui tutta la ricerca, la musica d'avanguardia, le novità e l'interesse per la musica estera sono stati aboliti in favore di una strumentalizzazione dell'arte a fini di propaganda. Un cambiamento di rotta che ha significato molto per gli artisti, esattamente come asseriva Roždestvenskij (conosciuto personalmente da Pulcini, che fu colpito dalla sua simpatia), che furono ostacolati dal regime incontrando grandi difficoltà nell'esprimersi liberamente. Emblematico è il caso di Šostakovič, artista che è riuscito a comporre una musica che in apparenza sembrava trionfalistica, ma in realtà era terribilmente tragica, solo che le orecchie dei commissari del popolo non erano così raffinate come quelle degli appassionati di musica. Non erano quindi in grado di capire le sottigliezze che quest'autore riusciva a mettere nelle sue opere. Gli anni '30 sono stati quelli più tragici per l'Ucraina, a causa del famoso Donbass, zona che ora i russi hanno annesso ma che ai tempi fu da loro ripopolata dopo le stragi compiute da Stalin, dittatore che sequestrò tutto il grano della semina di chi si opponeva alle collettivizzazioni. Chi non ricorda i cinque milioni di morti sotto il suo regime? Solo in seguito c'è stata la possibilità che gli artisti andassero all'estero, prima Ėmil' Gilel's (verso cui le autorità politiche e culturali sovietiche furono molto generose in fatto di riconoscimenti artistici) e dopo Svjatoslav Richter.



Il primo è sempre stato estremamente onesto nei confronti del secondo, dichiarando: "Voi dite che io sono il più grande pianista russo, ma è solo perché non avete ancora ascoltato Richter." Gilel's fu davvero un uomo probo e giusto. Richter aveva il problema di essere tedesco da parte di padre; il genitore subì un assassinio in un momento di repressione. La questione della nazionalità era molto importante e sul suo passaporto ne era scritta una ibrida, non pura. Era nato a Žytomyr, città posta un centinaio di chilometri a ovest di Kiev, una zona, come quella del personaggio storico Ivan Mazepa, popolata da etnie slave e anche di carattere religioso cattolico, legate all'impero austriaco; non era il caso di Mazepa, essendo lui stato ortodosso. Con la citazione del compositore ucraino Mykola Lysenko si entra nel vivo del programma di sala di stasera. Si tratta di un autore del secondo Ottocento, scomparso nel 1912, che fu un importante musicologo, oltre che pianista, compositore e direttore d'orchestra, noto anche per aver raccolto una grande quantità di canti popolari, circa cinquecento. In quest'attività può essere accomunato con Janáček e Bartók; nelle sue composizioni figurano spesso dei canti popolari, come avviene nella sua opera più famosa, Taras Bulba (dal romanzo di Gogol'), una delle ultime da lui scritte. Čajkovskij, che apprezzava molto Lysenko, si adoperò per far rappresentare la sua opera anche a Pietroburgo. Lui accettò, ma chiese che venisse cantata in ucraino e non in russo, altrimenti non avrebbe dato il suo permesso all'esecuzione, ma, siccome i cantanti non avevano voglia di studiarsela in ucraino, alla fine non se ne fece nulla.



È un'opera abbastanza interessante, scritta da un autore tardoromantico, non un innovatore come Stravinskij, ma comunque importante poiché considerato l'autentico padre della musica ucraina. Prima del tanto atteso recital di Boris Bloch, viene fatta un'ultima considerazione sulla sua città natale, Odessa. In essa sono nati la maggior parte dei grandi pianisti sovietici del Novecento, per cui quando parliamo di scuola pianistica russa dobbiamo sapere che in una percentuale altissima questi strumentisti provenivano dall'Ucraina, anche se la loro identità era in parte ucraina e in parte russa. Musicisti che si sentivano parte di una grande madrepatria, anche a livello scolastico, dato che Mosca alla fine era la città in cui la maggior parte di loro studiò. Sono venuti fuori grandi nomi: Ėmil' Gilel's, Maria Grinberg, Shura Cherkassky, anche Svjatoslav Richter, il quale era nato a Žytomyr ma i suoi genitori erano di Odessa. Altri furono Vladimir de Pachmann, Simon Barer. Veramente una grandissima civiltà pianistica quella ucraina. Perché proprio a Odessa tutte queste grandi personalità? Forse per il fatto, dice Ciammarughi, che questa città rappresentava un crocevia di culture, un luogo di scambio intellettuale, anche molto misterioso, pieno di tunnel sotterranei, una città che qualcuno definì abitata da una specie di magia interiore. Una porta fra oriente e occidente. Possiamo trarre dalla sua vicenda un insegnamento: spesso la grande arte nasce in luoghi di confine, contraddistinti da vivaci scambi tra culture diverse.




TESTI POETICI LETTI DA ANNINA PEDRINI



Di Wisława Szymborska:
Impressioni teatrali
Un amore felice


BORIS BLOCK
UNA TESTIMONIANZA




Questa è una serata che non esiterei a definire singolare. Erano più di trent'anni che il grande artista ucraino non tornava a Milano, un "comeback" come lo chiama lui stesso, non sa se felice, ma un ritorno (dice con un misto di umiltà e ironia). Il suo racconto è avvenuto a fine concerto, provocato da alcune domande postegli da Luca Ciammarughi. Nel parlare Block ha tradito un coinvolgimento emotivo che ancora oggi si mostra particolarmente acuto, davanti al pubblico si è materializzata una reminiscenza di grande freschezza che è andata a integrare, umanizzandolo, il nudo dato biografico. Gran parte della sua carriera è nata proprio in Italia: "Prima della vincita del Concorso Busoni, appena lasciata l'Unione Sovietica, per un qualche motivo che non ricordo ricevetti una specie di raccomandazione da una grande signora di Milano, la baronessa Dorothy Lanny della Quara, a quel tempo Presidente della Fondazione Gioventù Musicale d'Italia, sita a Milano in Via del Gesù N. 2. Immaginate per un ragazzo di ventitré anni che arrivava dall'Unione Sovietica cosa significasse entrare in questo palazzo al centro di Milano, a due passi dal Teatro alla Scala e dal Duomo. Al suo interno c'erano tante persone che facevano lavori domestici, donne delle pulizie, addette alla lavatura e stiratura. Mi sono sentito in paradiso. La baronessa della Quara era una persona ricchissima, il suo cuore era rivolto alla musica classica ed era soprattutto interessata a portarla alla gioventù italiana.

Avevo fiducia in lei, fui quindi ingaggiato per suonare con l'Orchestra Sinfonica di Sanremo nel corso di una tournée italiana che toccava anche Imperia, città dove quattro anni fa ho acquistato una casa, non usandola però quasi mai. Nella grande Sala Verdi del Conservatorio di Milano venne il famosissimo violinista Ivry Gitlis, poi c'ero anch'io, suonammo entrambi in un concerto condotto dal giovane e simpaticissimo direttore d'orchestra svizzero Christof Escher. Gitlis eseguì il Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij, mentre io quello per pianoforte e orchestra N. 1, sempre di Čajkovskij. È stata una tournée meravigliosa, la ricordo con particolare piacere. A quei tempi mi ero già trasferito a New York, dove trovai un mondo completamente diverso e dei prezzi erano rigorosamente regolamentati. Non si riusciva a trovare un titolo di viaggio per meno di venti dollari, dovevo quindi cercare una compagnia che offrisse dei biglietti per andare in transatlantico per una cifra inferiore a quella. Il motivo era la mia scarsa disponibilità economica, solo dopo mi hanno dato qualche "cachet". Per venire in Italia presi dunque un aereo della compagnia Luxenbourg Airlines. Partii dall'aeroporto internazionale JFK di New York per raggiungere il Lussenburgo, da lì presi poi un treno notturno, dove riposai in un wagon-lit. Passai una bellissima notte arrivando a Milano, dove mi trovai nuovamente in un altro mondo. Mi misi poi sul treno per Sanremo, lungo una vecchia ferrovia che costeggiava il mare, io guardavo quasi incantato questa grande distesa d'acqua.

A Sanremo arrivai giusto per l'ora di pranzo, mi avevano già reperito un albergo dove soggiornare. In sala da pranzo trovai una bella accoglienza, lì tutti mi salutarono calorosamente. Mi sembrava davvero di essere arrivato in un paradiso. Quella di Sanremo fu la mia prima tournée in Italia, avvenuta nel 1975. Sono quindi rimasto in Italia, partecipando al Concorso di Seregno, dove mi classificai al secondo posto, secondo risultai anche a quello di Vercelli, mentre al Concorso Busoni di Bolzano vinsi il primo premio." Ma come vede Boris Bloch il tema del rapporto fra Ucraina e Russia? "Per me è un argomento molto difficile poiché mi sento come un prodotto sovietico. Allora avevamo un paese non diviso, eravamo un popolo solo e la scissione che è avvenuta dopo è stata una cosa artificiale. Da quando è crollata l'Unione Sovietica sono cominciati i problemi, culminati con la guerra. Oggi siamo di fronte a un disastro che non sappiamo ancora come finirà. Dopo alterne vicende, in cui si sono susseguiti degli uomini di potere al Cremlino, hanno annunciato senza chiedere a nessuno un azzeramento dei rapporti. Da quel momento ho capito che questo non ci portava fortuna, come evidentemente è successo. Oggi soffriamo tutti di una situazione che minaccia la vita umana, i bambini. Secondo me in Ucraina è arrivato, giustamente, quest'odio verso la Russia, contro la sua lingua e la sua cultura. Anche contro libri e autori come Dostoevskij, Tolstòj, Bulgàkov, Pasternak, non esclusa la musica.

In questo momento non viene rappresentata nessuna opera lirica russa, nemmeno i balletti di Čajkovskij: Il lago dei cigni, Lo schiaccianoci, La bella addormentata e nessuna compagnia di balletti può esistere senza rappresentarli. Personalmente, sono stato Direttore Artistico a Odessa, ho fatto rappresentare qualche opera russa come Il principe Igor di Borodin, Iolanta di Čajkovskij, anche opere italiane come Il trovatore di Verdi. Ringrazio molto Luca Ciammarughi per avermi invitato e dato la possibilità di tornare indietro di trent'anni, ricominciando la mia carriera milanese."


IL CONCERTO.
TRA SPLENDORE E NOBILTÀ



Mykola Vitalijovyč Lysenko (1842-1912)
Three Pieces from "Album from the Summer of 1902" Op. 41:
Elegia N. 3

Fryderyk Chopin (1810-1849)
- Polacca in fa diesis minore Op. 44

Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
Sonata N. 7 in Do maggiore KV 309
- Allegro con spirito
- Andante un poco adagio
- Rondò, allegretto grazioso

Fryderyk Chopin (1810-1849)
- Studio Op. 25 N. 1
- Studio Op. 25 N. 2
- Studio Op. 10 N. 11
- Studio Op. 10 N. 5
- Studio Op. 25 N. 5
- Studio Op. 10 N. 4

Fryderyk Chopin (1810-1849)
- Scherzo N. 1 in si minore

Bis:
Anton Rubinstein (1829 - 1894): Romance Op. 44 N. 1 "La notte"
Isaac Albéniz (1860 - 1909): "Cordoba" Op. 232 N. 4, da Cantos de España

Boris Block, pianoforte




Apre il recital l'Elegia N. 3 di Lysenko, dove Boris Bloch sembra voler affermare sin dall'inizio il suo animo ucraino. L'andamento è nobile, malinconico e fiero nello stesso momento. Con quest'autore pare davvero di rivivere le scaturigini dell'odierno conflitto che agita Russia e Ucraina. Di ritorno dal Conservatorio di Lipsia, Lysenko si stabilì a Kiev iniziando a scrivere opere d'ispirazione strettamente locale. Era mosso da grande orgoglio nazionale, ma il suo spirito non fu affatto gradito dalla "Società musicale imperiale russa", la quale voleva imporre anche in Ucraina la cultura della "Grande Russia". Così i rapporti si deteriorarono e lui giunse alla risoluzione di non comporre più una sola opera in lingua russa, arrivò addirittura a negare l'autorizzazione per le traduzioni in russo di tutti i suoi lavori. Il medesimo orgoglio lo ritroviamo nella Polacca in fa diesis minore Op. 44 di Chopin, una composizione dal carattere sperimentale dove il tema di Polacca segue dopo otto tenebrose battute introduttive. In questo motivo si agitano toni drammatici, marziali, che diventano quasi ossessivi nella sezione ostinatamente ritmica che si affaccia a partire dall'ottantatreesima misura. La sua indole sferzante è ben rappresentata dalle rapide quartine di biscrome eseguite a due mani, quasi un lampo guerresco. Dopo tanta tensione accumulata, tutto si scioglie nella dolce malinconia dall'ampio Trio (Doppio Movimento. Tempo di Mazurka).



Infine, alcune battute di transizione portano alla ripresa della Polacca, cui segue una breve coda, dove il tono maestoso perde progressivamente forza per spegnersi fino al pianissimo, improvvisamente interrotto dal fortissimo accordo conclusivo. Boris Bloch affronta con vero impeto questa difficile composizione, mosso da una forza rigenerante unita a una potente spettacolarità, ben sottolinea i frangenti espressivi con un "sound" diretto, che a volte diventa quasi rude, ma sempre efficace e autentico. Anche la Sonata in Do maggiore KV 309 di Mozart pare muoversi sotto l'egida di una rappresentazione possente, senza fronzoli; non è certo un Mozart edulcorato quello che ascoltiamo, soprattutto privo di movenze affettate. Ma non per questo l'interpretazione del nostro pianista si priva della necessaria raffinatezza, che trapela nel repentino passaggio tra i mutevoli stati d'animo. La grande energia che sprigiona sulla tastiera non confligge con un passato sonoro classico, sempre amabile ma non caramelloso. Block sembra ricercare in Mozart più che un'estrema rifinitura delle sfumature e una digitalità troppo minuziosa, un'atmosfera d'insieme robusta e brillante, dalla sconfinata umanità. Allo spigliato Allegro con spirito segue l'Andante un poco adagio, qui l'interprete si sofferma in una sublime quanto semplice meditazione, la sua "vis" poetica si muove sempre all'interno di una dialettica sincera, quanto mai lontana dall'artificiosità e da una musicalità calcolatamente lambiccata.



Ora capisco cosa voleva dire Sylvia Adler nella sua critica apparsa sul "Darmstädter Echo" quando diceva che Boris Bloch è " Un appassionato ricercatore della verità". Alla luce di quanto ascoltato, nel Rondò, allegretto grazioso che termina la Sonata riesce a sfoderare una grazia, una misura classica che ha del toccante. Questo gigante del pianoforte qui assume le vesti di un tenero fanciullo, intento a giocare con la musica e mosso da un commovente senso del candore. Ciò che si smarrisce in termini di esattezza digitale (qua e là qualche nota sbagliata e qualche passaggio non proprio pulitissimo si sentono...) si guadagna ampiamente in termini di lirismo, di quel "je ne sais pas quoi" che nessun critico è capace di definire con precisione e che fa parte di un grande vissuto personale, poi manifestato senza infingimenti sulla tastiera. Boris Block emerge come grande signore del pianoforte, agli antipodi di certi attuali "supercomputer" da tastiera, strumentisti che suonano alla perfezione ma per converso non sono in grado di trasmettere all'ascoltatore l'onda calda della musica. Sono sensazioni che trovano conferma anche nei sei studi chopiniani che seguono. Nell'Op. 25 N. 1 "Arpa eolica" il pianista di Odessa non percuote, ma accarezza con somma delicatezza i tasti nelle scorrevoli sestine di semicrome; non mi sembra di essere più dove mi trovo ma di volare trasportato nell'etere da una soffice nube di note. L'Op. 25 N. 2 in fa minore non ha nulla di meccanico, le rapide terzine in Presto assumono un andamento flessuoso, il turbine di note evoca un moto d'animo agitato e potrebbe diventare un'ottima colonna sonora per un film che racconti dei momenti più agitati della nostra esistenza.



Si passa all'Op. 10 con lo Studio N. 11 "Arpeggio", in tale frangente si accede a un'armonia che rapisce, tecnicamente giocato sulla capacità di estensione delle dita, che Chopin facilita con l'arpeggiamento degli accordi. La mano di Block è qui molto precisa, ma ciò che impressiona è la sua assoluta assenza di sforzo nel suonare dei brani che dal punto di vista tecnico non sono certo una passeggiata, è un'impressione che si ripete regolarmente in ognuno, anche nell'Op. 10 N. 5 "Tasti neri", dove si ripresenta il roteare di terzine di semicrome. Un Vivace brillante reso in maniera scolpita e nello stesso tempo scintillante dalle mani sicure del pianista, che in questi Studi dimostra una sicurezza assoluta, quella stessa che gli consente di suonarli con invidiabile disinvoltura e "nonchalance". Si ritorna all'Op. 25 con il N. 5 "Nota sbagliata", un brano dalla struttura tripartita la cui sezione centrale sorprende per il nobile e sublime lirismo che la pervade, nettamente in contrasto con le estreme, che hanno invece un carattere piuttosto bizzarro. L'introduzione, infatti, per due volte di una nota estranea in un accordo perfetto, dà l'impressione di una dissonanza, una nota "sbagliata" appunto. La silloge di Studi termina con l'Op. 10 N. 4, attaccato da Block quasi con furia, in modo travolgente e imperioso. Si tratta di un brano di bravura, una sorta di "perpetuum mobile" che impegna allo stesso modo le due mani. A complicare le cose si mette anche la grande velocità di esecuzione (Presto, 88 alla minima), che rende un vero e proprio "tour de force" questo pezzo. Una grande prova, brillantemente superata dal nostro. Dopo lo Scherzo N. 1 in si minore, sempre di Chopin, questo memorabile recital, dove il pianista ucraino sembra aver dato fondo a tutte le sue risorse tecniche e poetiche, termina con tre bis. Dopo cotanta tensione, gli "encore" assumono un valore liberatorio. Spero vivamente che Boris Block torni ancora nel nostro Paese per farci partecipi del suo meraviglioso pianismo.




Alfredo Di Pietro

Ottobre 2022


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