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 Presentazione del CD "Chopin Selon Chopin" Riduci

 




I fantasmi prendono forma al chiaro di luna, si materializzano nei sogni. Ombre. Sagome di ciò che non è più.
(Ellen Hopkins)

Per una persona che ha la pretesa di trasformarsi in "chroniqueur", vengono prima di tutto le coordinate spazio-temporali. Mercoledì 6 novembre ore 17,30, presentazione del CD "Francesco Libetta - Chopin Selon Chopin" presso il Flagship Store di Milano, Largo Guido Donegani, 3. Un evento in realtà foriero di due "sottoeventi", vissuto in presenza di un convitato di pietra: la figura del fantasma. Se fossimo in un contesto Pop Rock quest'ultimo progetto discografico di Francesco Libetta verrebbe definito come un "Concept Album", inteso a fotografare, proporre, suggerire una particolare idea e cercare di dimostrarla con coerenza durante tutto il corso del suo sviluppo. Il pensiero che il maestro Libetta desidera proporci è quello della rievocazione di un'atmosfera, di un particolare suono perduto, lungamente sognato, per duecento anni vagheggiato e rincorso da grandissimi esperti. Un'illuminazione personale nata da un lunghissimo percorso e che non vuole essere una mimesi, altrimenti l'album sarebbe stato registrato su un pianoforte antico, ma giustappunto una reminiscenza, restituita su uno strumento moderno. Il riportare in luce un "milieux", come si usa in tante forme d'arte, compreso il cinema. Si tratta di un "modus operandi" praticato anche in letteratura. E se di evocazione dobbiamo parlare, non potevamo non avere tra noi lo scrittore, giornalista ed editore milanese Stefano Jacini, anche lui come il maestro Libetta ha la capacità di disseppellire, con il linguaggio di oggi, atmosfere perdute, sapori, suoni e un ambiente particolare.



E tanto evoca Jacini che alla fine fa comparire dei fantasmi nei suoi romanzi, che sono tra i personaggi più vivaci, simpatici e di garbo che, secondo Alessia Capelletti, la letteratura degli ultimi decenni ricordi. Una serata quindi dedicata all'evocazione, della letteratura attraverso la parola di oggi e della musica di Chopin mediante il suono di uno strumento odierno, per l'occasione un magnifico Steinway & Sons Spirio|r. Un "fantasma" inseguito per decenni da Francesco Libetta, che è arrivato a fare anche cose strane, non sempre comprese dai suoi amici, collezionando e inseguendo strumenti antichi, spendendo cifre imbarazzanti per restaurarli, suonandoli dal vivo e privatamente e incidendoli anche su disco. Alla fine ciò che appariva strano si è invece rivelato avere un senso preciso. Il suo indefesso lavorio non era frutto di un malvezzo, ma uno strumento per assimilare quel suono tanto rincorso, poiché solo attraverso un lungo processo d'interiorizzazione questi brani possono essere eseguiti su uno strumento contemporaneo. Ma come si evoca, evitando la mimesi? "Lui è andato a caccia del fantasma", esordisce Stefano Jacini, "io invece me lo sono inventato, molto più comodamente, pari pari." Lo scrittore milanese ha escogitato in realtà un trucco molto banale per cercare di entrare nei corridoi più segreti della storia. Nel suo romanzo "La cuoca di Radetzky", ambientato nel 1848, il fantasma è precedente, morto nel 1814, e si chiamava Giuseppe Prina, primo Ministro delle Finanze del regno italico napoleonico. Faceva pagare le tasse ai milanesi e, come ben si sa, gli italiani non hanno con esse un buon rapporto.



Difatti, quando Napoleone stava per finire la sua parabola, a Milano ci fu una sommossa, molti cittadini andarono in senato e poi, guidati dal conte Federico Confalonieri (l'eroe del Risorgimento), si recarono sotto il palazzo di Prina, lo scovarono nascosto in un camino, lo spogliarono, lo calarono nudo dalla finestra e lo uccisero a calci, pugni e ombrellate. Dopo questo truce episodio alcune famiglie nobili milanesi chiamarono gli austriaci che stavano a Peschiera del Garda, questi arrivarono a Milano, fecero un'operazione di pulizia non andandosene più via. L'escamotage del fantasma è servito a raccontare questi eventi in modo non pedante, si tratta di uno spirito simpatico e anche un po' guardone, testimone della storia d'amore tra Radetzky e la sua cuoca. Già anziano accettò, per dei problemi di debiti, il ruolo di governatore; si trovò davanti a questa bella donna e se ne innamorò, facendo con lei in seguito quattro figli. Josef Radetzky morì a Milano, aveva un cordone ombelicale con questa città, era un uomo tremendo, faceva fucilare, impiccare, ma evidentemente si considerava un bravo amministratore. Ben altro ectoplasma si muove nel CD di Francesco libetta, che inizia il dialogo dicendo: "Il rapporto di Chopin, e in generale di quel periodo, con il sovrannaturale è complicato. Ci sono delle epoche dove va di moda essere quanto più possibile razionali, ce ne sono invece altre in cui il concetto di fantasma dilaga." Chopin stesso scrisse un biglietto, non si sa con certezza se nei suoi ultimi giorni di vita, in cui manifestava la volontà di non essere sepolto intero, ma per primo il suo cuore, come se fosse stato ossessionato dall'idea di risvegliarsi da sepolto.



Nella musica del grande polacco la presenza di fantasmi si spreca, dai Notturni al finale della Sonata per pianoforte N. 2. Tra libro e CD intercorre tuttavia un secondo legame, che può sembrare collaterale ma in verità non lo è. Ne La cuoca di radetzky si parla dell'abitudine austriaca a dare molta importanza alle apparenze. Chopin, che era polacco ma sino a oggi associato a Parigi, la prima città dov'era andato e aveva riscosso un enorme successo era Vienna. A Parigi non c'era mai voluto stare, aveva preso un passaporto per andare a Londra via Parigi. I primi pianoforti cui era legato e il pubblico che gli decretò il successo iniziale erano viennesi. Il compositore ci teneva moltissimo alle apparenze, in lui questi due poli, della facciata e dell'essenza, avevano un rapporto speciale. Il discorso può essere traslato alla circostanza in cui una persona deve eseguire un pezzo o leggere un testo altrui: se un interprete dev'essere in un certo senso testimone o reicarnazione di qualcosa, si ritrova in una posizione dove o fa lui stesso il fantasma che sa più degli altri fare la "spia", oppure può incappare nel paradossale e assurdo frangente di non poter fare altro che una sorta di ricreazione totale. Se Chopin suona quello che ha scritto in una sua partitura, o se la cambia completamente, sempre lui rimane. Qualsiasi cosa noi facciamo rieseguendo la sua musica ovviamente non ha tale patente di autenticità. Allora la questione di ricreare Chopin non diventa attuare esattamente quello che lui avrebbe fatto, ma tentare di recuperare l'atteggiamento con cui si disponeva alla musica.



È un ragionamento che potrebbe sembrare un po' lambiccato (secondo il parere di chi scrive denota invece profonda intelligenza) però il problema della rievocazione non si può risolvere imitando esattamente una cosa accaduta, ma tentare di recuperare il modo in cui era stata fatta accadere. Si sa che Chopin improvvisava. Tra le varie testimonianze dei suoi allievi, quasi tutte raccolte e disponibili, si racconta che il compositore faceva delle cose stranissime, non solo cambiando la dinamica o introducendo un dato brano. Una delle cose più impressionanti venne riportata da Robert Schumann, infastidito dal fatto che Chopin alla fine di ogni pezzo glissava suonando tutti i tasti del pianoforte, dal primo all'ultimo, forse per cancellare i fantasmi che aveva appena riesumato. "Dava fastidio a Schumann, ma se oggi si imitasse provocherebbe probabilmente delle forti reazioni tra il pubblico", dice Libetta. Se accompagnata da un minimo di buon senso, al contrario l'introduzione poteva avere una sua logica. Un'introduzione che non è quella tardoromantica praticata tra le due guerre dai pianisti più severi, come Lipatti e Backhaus, ma quella che serve all'orecchio un po' per schiarirsi la "voce", un po' per non lasciare che queste apparizioni arrivino addosso troppo all'improvviso. A un certo punto Alessia Capelletti chiede: "Ma in queste vostre rievocazioni, letterarie e musicali, c'è anche un'ombra di malinconia?" Alla domanda Stefano Jacini dichiara di sentirsi più cinico che malinconico.



Nel suo libro c'è molta sostanza musicale, Verdi, Bellini, l'epoca del "va, pensiero", il povero Rossini cui mettono in scena il Guglielmo Tell con il titolo di "William Wallace", trasformando così la storia in un problema di successione della corona di Scozia, perché l'idea che ci siano degli svizzeri che si ribellano agli austriaci non era propriamente gradita. Uno dei motti di Radetzky era che per controllare Milano bisognava sorvegliare la Chiesa e La Scala. La Chiesa non era un problema perché l'arcivescovo apparteneva alla famiglia reale viennese, La Scala invece gli sfuggiva di mano. Non a caso l'ultimo sovrintendente (1848) era il capo della polizia austriaca. Sapevano che lì si ascoltava musica, ma quando il pubblico andava nel foyer complottava contro il potere. A Milano c'era Franz Liszt, venuto a suonare per l'incoronazione dell'imperatore viennese come re del Lombardo-Veneto, in quei giorni nacque sul lago di Como Cosima, destinata a diventare seconda moglie di Richard Wagner. Scendendo nei pettegolezzi, lui pubblicò su una rivista un giudizio su La Scala, definito "teatro maledetto" perché costruito su una chiesa, e il diavolo si era vendicato trasformando il pubblico di tale teatro nel più ignorante e schifoso possibile. Libetta ritorna alla domanda interrogandosi sulla relazione tra Liszt e la sua musica, l'eccezionale virtuoso che si esibiva nelle grandi sale per un largo pubblico, che aveva un aggancio pure con la stampa, con i mezzi d'informazione dell'epoca, con il suo ruolo di figura pubblica che non era assimilabile a quella di Chopin, pianista abituato a un pubblico più ritretto.

Alessia Capelletti

Così il suo messaggio non passava tramite elementi proiettabili a centinaia di persone, ma poteva essere veicolato anche dall'ammiccamento, da gesti minimi che si possono notare soltanto in una stanza. Esistono pure testimonianze particolarissime del tempo, le quali danno l'idea del modo di pensare la figura del musicista. Libetta racconta di essere stato colpito da una lettera scritta da una dama francese a una sua amica, dove questa diceva che in una certa casa c'era anche Chopin. "Non ha suonato, era molto debole, anzi pare che non lo faccia più. Lui non fa musica, ormai è la musica". Una mentalità tipica di metà '800 che oggi si fa un po' fatica a comprendere in quanto l'oggetto del compositore polacco non diventa il prodotto sonoro ma una presenza personale, diversa da quella del personaggio mediatico, come invece poteva essere per Liszt. "Non posso dire", confessa Francesco Libetta, "di provare nostalgia come rievocatore, però il concetto di recupero della memoria, e non credo che sia una cosa esclusivamente mia, mi affascina come operazione di ritrovamento di un mondo ormai scomparso. Mi attira il fatto di poter contenere oggi una reminiscenza, non il tornare a farla rivivere." Il rapporto diretto che il pianista salentino ha con il pianoforte e la partitura, appare differente da quello che Stefano Jacini ha con la letteratura, che si sente come "un topo che gira tra le scartoffie e ruba dove può." Sul divismo: c'è una testimonianza di Liszt che in un salotto si avvicina al pianoforte, si toglie i guanti bianchi e li butta uno di qui uno di là, con le dame che vanno a raccoglierli come fossero delle reliquie.



Si verificavano anche queste messe in scena di dubbio gusto. Non c'è alcun testo a riguardo, ma Libetta si chiede se i pianoforti dei salotti francesi degli anni '30 e '40 dell'Ottocento si suonassero col coperchio aperto o chiuso. Gli stessi Pleyel avevano due coperchi e lui il secondo non l'ha mai visto aperto, nemmeno negli acquarelli dell'epoca, c'era una sorta di pannello di legno che si metteva sulle corde, perché così il suono risultava più fantasmatico. La registrazione su disco oggi generalmente prevede che i microfoni siano posizionati molto vicini alle corde, nemmeno alla distanza di una prima fila, con il fruitore che quando siede in una sala vuole sentire lo stesso suono che apprezza quando è a casa, magari sul proprio costoso impianto HiFi. Cosa impossibile viste le modalità di cattura imperanti. Ecco che le modalità di ascolto sono destinate a invertirsi pericolosamente. Lo stesso Francesco Libetta ha avuto delle accese discussioni, prolungate e pure affaticanti, con i tecnici del suono in sede di registrazione del suo ultimo disco, proprio perché alcune note, soprattutto dei Preludi, ci sono e non ci sono. Questo perché non si sta scandendo la verità di uno spartito, chee è data oggettivamente a un pubblico di non lettori di musica che desidera sapere che cos'è un dato brano. Si cerca magari solo di mormorare, attirare l'attenzione di un paio di amici che stanno finendo la loro conversazione prima che il pezzo inizi. Sono cose che per l'epoca potevano essere naturali ma oggi non lo sono. Frontalità e raffinatezza, urlo e sussurro non sono elementi conciliabili.

Francesco Libetta

Immaginiamo i dischi del pianista francese Francis Planté (1839 - 1934), uno dei primi artisti a effettuare registrazioni su disco, diventato noto anche per aver ascoltato di persona suonare Chopin, o Camille Saint-Saëns. Alcuni dischi a 78 giri commerciali dell'epoca iniziano con un tecnico che dice: "suoni, suoni, è pronto". In uno si sente Saint-Saëns che improvvisa su temi del suo poema sinfonico Africa e alla fine pasticcia alcuni accordi. Finito l'ultimo inizia a brontolare, il tecnico dissolve il prima possibile e il disco viene venduto così com'è. Andarono con le apparecchiature a casa del novantenne Francis Planté, sui pirenei, registrarono una serie di studi in presa diretta, tutti con dei sottotitoli. Lui era impegnato in uno Studio molto difficile e molto rapido di Chopin, l'Op. 10 N. 7, suonando in modo così garbato e prudente da non dare l'impressione del volo di una farfalla ma del "borbottio di una marmitta" (tenendo presente che era ormai novantenne), brano sottotitolato "Una gita in automobile". Si tratta quindi di un pezzo complicato che lui registrò al primo tentativo, con grande correttezza, ma sbagliò l'ultimo rigo. Termina l'accordo finale e si sente "merde!". Un disco venduto così, senza problemi. Stefano Jacini non ha nulla da raccontare di carpito dietro le quinte, ma una cosa carina si, non inventata da lui e documentata. C'era stata una visita a Milano di Honoré de Balzac, in cui andò a trovare Alessandro Manzoni. Lui trattava I promessi sposi alla stregua di un romanzetto. I due s'incontrano, Balzac era un po' logorroico mentre Manzoni era balbuziente (e pure timidissimo), avviarono una conversazione, essendo due romanzieri, sui diritti d'autore.

Stefano Jacini

Balzac era furibondo perché un editore belga gli stava stampando tutti i suoi romanzi senza che lui beccasse un soldo, e Manzoni era arrabbiato perché il Ducato di Toscana pubblicò il suo capolavoro e Le Monnier non lo pagò in quanto era all'estero. Viviamo in un mondo in cui non è più possibile essere l'irreale produttore di arte dell'entourage di Chopin. Libetta ricorda quando i suoi studenti trovarono Gavrilov online e iniziarono a scambiare con lui dei messaggi. Il grande pianista russo mandò gli auguri di compleanno a uno di loro. Ai suoi tempi era una cosa inconcepibile poter comunicare con tale facilità con un grande pianista. Questo genere di commistione del quotidiano con il mitico, del reale con l'irreale, può essere scontato in una piccola sala ma pasolinianamente squilibrato nelle grandi situazioni lisztiane, diventa però molto interessante da riportare in luce nel caso di artisti come Chopin, il quale aveva un rapporto, musicalmente parlando, solo con i suoi studenti e la sua cerchia di amici polacchi. Sia Libetta che Jacini nei loro ultimi lavori hanno affrontato sostanzialmente lo stesso periodo storico e i medesimi temi: il conflitto generazionale di un uomo del '700 che si trova catapultato in una nuova sensibilità, la protoromantica, l'epoca della nascita del senso della nazione. Emerge quindi la figura di uno Chopin che proviene da una formazione settecentesca, ma si sforza di esprimere una nuova sensibilità, che coincide con la sua personale. Pianista e scrittore si sono incontrati in un medesimo periodo storico, venendo tuttavia da due posizioni opposte e due atteggiamenti agli antipodi.



"Quello che è certo", interviene Jacini, "è che Radetzky non aveva capito nulla del secolo in cui viveva. Fu testimone di nozze del futuro Vittorio Emanuele II, Carlo Alberto era cognato del vicerè del Lombardo Veneto. Lui considerava questi legami ad alto livello garanzia di alleanze eterne. Quando i piemontesi arrivarono in Lombardia per lui fu come un grande tradimento, non riusciva a capire che in Europa stava bollendo qualcosa che era al di fuori delle teste coronate. Quando Radetzky ritornò a Milano, dopo le cinque giornate, arrivò alle porte della città disponendo di circa 22.000 soldati, i piemontesi che erano a Milano erano più di 40.000 e altrettanti ne contava la Guardia Nazionale Lombarda. La città venne quindi consegnata al feldmaresciallo austriaco. Dopo la battaglia di Novara, quando Carlo Alberto andò in Portogallo, Radetzky andò ad abbracciare Vittorio Emanuele II, poiché era stato suo testimone di nozze, quest'ultimo disse di dover correre a Genova per uccidere tutti i repubblicani. Le teste coronate si sorreggevano tra loro. "Cosa c'è di più fertile di un'incomprensione tra persone intelligenti?", interloquisce Libetta, "Una cosa che mi affascina moltissimo è la musica classica europea cinese del dopoguerra, in cui non sanno usare le armonie, tuttavia vogliono fare anche le canzoni Jazz come hanno sentito nei dischi". Ne vengno fuori delle cose meravigliose, con citazioni e cose nuove che non sono imitazioni fatte male.



L'unico maestro di pianoforte di Chopin sino ai quattordici anni fu il pianista e violinista Wojciech Żywny, un boemo nato nel 1756, lo stesso anno in cui venne al mondo W.A. Mozart. Era preso in giro dagli amichetti di Chopin a causa della sua lentezza nel prenderli. Lui avrà conosciuto il clavicembalo in gioventù, formandosi a un altro tipo di esecuzione. Il rubato clavicembalistico è diverso da quello pianistico perché è solo quantitativo. Sarebbe interessante parlare delle straordinarie associazioni che si trovano in periodi in cui la metrica qunatitativa si perde e viene sostituita dall'accentuativa, cambiando la pronuncia. Questo povero ragazzetto (Chopin) a Varsavia, formato già con un gusto d'inizio '800 ma secondo criteri antichi, conosce Paganini senza probabilmente capirlo granché. In quel periodo inizia ad avere successo l'opera italiana, a Parigi tutti cantano Bellini, ma lui come lo legge? Come tenta di rifare al pianoforte questa linea belliniana, essendo il primo ad azzardarlo? Tentare di rientrare in questa potenziale incomprensione può essere una sollecitazione fertile. Chopin viene letto attraverso tutti gli chopinisti tardoromantici che hanno fatto in tempo a registrare, tra fine '800 e inizio '900. In quegli anni un compositore polacco a Vienna, Leopold Godowsky, riscrisse dei pezzi per pianoforte di Chopin semplicemente perché il Pleyel del compositore polacco evocava fantasmi, mentre il nuovo grancoda con la piastra in ghisa nei modelli di fine '800, riusciva a fare delle polifonie, degli effetti di volume di straordinaria complessità. Lo scopo era dunque quello di "addensare" tali brani.



La scuola per il pianista che studia questa musica è intanto tecnica, ma anche estetica. Chopin a casa aveva i mobili di Luigi Filippo, si fece pure sostituire le sete delle poltroncine e i divanetti con altre bianche perché i colori lo infastidivano. Fondamentalmente pensava di essere un modernista semplice nell'arredo. Quando uno pensa a questi dettagli già ne riceve una lezione di estetica. "Poi ci sono le aporie", dice Libetta. "In uno spartito a stampa del Valzer Op. 34 N. 2, usato da una delle sue migliori allieve, Chopin stesso autografa una parte di canto suppletiva, una sorta di terza mano. Un compositore di genio come lui non poteva produrre una banalissima ripetizione, un raddoppio, ma scrisse un controcanto, non inteso come linea strumentale che va a integrare il pezzo. Però è di Chopin, per pianoforte e autografa. Io mi sono permesso una piccola libertà, inserendo questa parte nel Valzer perché è dell'autore stesso e dura poche battute: venti secondi contro i quattro minuti che dura l'intero brano." All'improvviso sentiamo uno Chopin che si sta "godowskyzzando" poiché aggiungendo questa linea melodica si apre la porta a una specie di fantasma stilistico, che oggi ci suona incomprensibile. Ogni tanto Libetta suona questo valzer anche come bis, il pubblico gli perdona quest'aggiunta pensando che sia solo un suo vezzo improvvisativo, ma in realtà è dell'autore al 100%." Quando Chopin suonò per Schumann, un collega che tecnicamente sapeva bene cosa stava accadendo, eseguì il primo degli Studi dell'Op. 25, un pezzo dove ci sono moltissime notine scritte in piccolo, lasciando le note grandi solo per la melodia.



Schumann poi riportò che Chopin non faceva veramente sentire tutte le note (una specie di "ghost note", visto che di fantasmi stiamo parlando?). Dal punto di vista tecnico, far ascoltare distintamente tutte le note di questo studio può essere complicato perché, non solo sono tante, ma in diverse occasioni anche lontane da raggiungere sulla tastiera, per cui bisogna andarle a prendere e poi tornare di un buon mezzo metro indietro da una parte e dall'altra. E per spostare il braccio ci vuole tempo. Tendono quindi a crearsi dei buchi, in più, con le risonanze delle corde, alcuni suoni più tenui possono diventare non udibili. Uno studio certamente virtuosistico. Tra le tante difficoltà che possono esserci in un pezzo del genere, siamo sicuri che lui si riferisse a questa della scansione meticolosa, precisa di ogni contorno, e non magari a una sorta di legato? Altra difficoltà che in questo studio non manca? "Partendo da altre premesse vocali ed estetiche", dice Libetta, "ho provato a dare una lettura dove non si comprende molto. Si tenta di dare un'immagine se vogliamo teatralizzando una mitologia chopiniana, però quale altra chiave di lettura che non sia semplicemente una competizione con la tradizione più vicina potremmo dare? Quest'ultima mi sembra poco interessante come motivazione di ricerca." Esiste una versione di questo studio, detto dell'arpa eolica, scritta da Godowsky, che Francesco Libetta ci fa ascoltare.



"Ed è un album", interviene Alessia Capelletti, "che si sviluppa anche sull'idea di rincorrere l'inafferabile momento della musica dal vivo, tant'è vero che lo abbiamo voluto lasciare un po' sporchino." Nel disco si sente qualche fruscio dell'abito, qualche segno di presenza rilevabile da un impianto HiFi di alto livello.

Brani suonati:

- Fryderyk Chopin: Valzer in la minore Op 34 N. 2
- Fryderyk Chopin: Studio Op. 25 N. 1 in la bemolle maggiore: Allegro sostenuto
- Chopin-Godowsky: Studio Op. 25 N. 1. Dagli Studi dopo Frederic Chopin.


IN ATTESA DI "CHOPIN SELON CHOPIN"
ALCUNE MIE PICCOLE CONSIDERAZIONI "A LATERE"

Faccio la doverosa premessa di non aver ancora ascoltato questo "Chopin Selon Chopin", ma riesco a intravvederne la "silhouette" dalle parole dette questa sera. Il titolo di quest'album potrebbe destare sospetti, lasciar presagire la solita operazione commerciale dove viene indorata, resa "charmant", una delle tante registrazioni che girano sulla piazza discografica. Lo stesso utilizzo del termine "selon", in italiano "secondo", "conformemente a", potrebbe apparire altisonante, suggerire uno Chopin redivivo che siede al pianoforte contornato dal pubblico. In realtà questa registrazione nasce su basi culturali estremamente solide e non è il consueto specchietto per le allodole. Dal pregnante dialogo tra Alessia Capelletti, Francesco Libetta e Stefano Jacini emerge al contrario una ferma dichiarazione d'intenti, viene chiarito il perché di questo nuovo progetto discografico, frutto di un percorso non banale del pianista salentino, tra anni di collaborazione con prestigiose istituzioni, insegnamento, la sua opera di esplorazione, collezionamento, restauro ed esecuzione su pianoforti antichi, con una speciale affezione per quelli ottocenteschi, proprio quelli sulle cui tastiere si posavano le mani di grandi compositori come Chopin e Liszt. Bisogna poi sottolineare lo straordinario approfondimento espressivo che il pianista ha compiuto su Chopin, la lunga e meticolosa ricerca finalizzata a riandare alle fonti più veraci non solo delle partiture ma anche della prassi compositiva dell'epoca, poi scendendo in quella peculiare del grande polacco. Un progetto inedito, in tutti i sensi, nel quale Fryderyk Chopin viene pensato e reinterpretato in una luce nuova, in una temperie differente da quella della tradizione interpretativa consolidata. Non c'è in Libetta nemmeno il protagonismo d'invadere il campo chopiniano con il suo ego, mascherando alla fine l'essenza delle sue celebri esibizioni dal vivo, le evoca piuttosto, anche nell'abitudine del grande polacco alle occasionali deviazioni da ciò che era scritto nero su bianco nella partitura. Questo si presagisce nella presente registrazione, un CD che, in buona sostanza, ambisce a ricreare l'atmosfera che si respirava nei salotti chopiniani. Un'avvincente ipotesi di lavoro, "una ricostruzione quasi cinematografica di suoni, luci e atmosfere lontane." ne sono certo: questo è un album che farà molto discutere.


Alfredo Di Pietro

Novembre 2024


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