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lunedì 29 aprile 2024 ..:: Presentazione del libro "E la giostra va" - Verona ::..   Login
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 Presentazione del libro "E la giostra va" - Teatro Filarmonico di Verona Riduci

 

 

INTRO

 

 



Ogni evento importante, e la presentazione del libro di Francesco Libetta "E la giostra va. Conversazioni con Gianni Tangucci" sicuramente lo è, reca con se dei "topoi" distintivi. Il luogo fisico innanzitutto, cioè quello spazio al cui interno trascorre l'avvenimento, nella giornata di venerdì primo marzo il Teatro Filarmonico di Verona, il più grande e antico della città. Un'arena in realtà privata, appartenente all'Accademia Filarmonica di Verona, fin dalla sua costituzione sede della stagione lirica invernale. È un teatro dalla storia piuttosto travagliata; inaugurato nel 1732, subì un primo colpo nel gennaio 1749, quando al suo interno si sviluppò un incendio che ne rese necessaria la ricostruzione, la quale venne realizzata con l'apporto di alcuni cambiamenti. Fu quindi inaugurato una seconda volta nel 1754. Un'altra ferale ingiuria ricevette nella notte del 23 febbraio 1945, giorno in cui il Filarmonico fu colpito da un ordigno incendiario, sganciato da un bombardiere inglese, che lo distrusse parzialmente. Tuttavia, l'Accademia non si perse d'animo, dichiarando che si sarebbe sforzata di ricostruirlo esattamente com'era prima del tragico evento. I lavori durarono molto tempo e condussero a una terza inaugurazione, nel 1975. Una gentile maschera mi racconta succintamente la sua storia, a un certo punto mi accompagna all'esterno indicandomi la linea di demarcazione tra il portico antico, cioè quella porzione che fu risparmiata dalla devastazione, e la parte nuova a esso adiacente.

 



Tale eterogeneità architetturale prosegue con un elemento che porta il teatro a essere assai particolare, poiché ospita dei negozi sotto il porticato. Il suo nucleo originale era una sala del '600, antecedente all'edificazione del Filarmonico e rimasta per fortuna indenne a tutti e due i disastri, chiamata sala Maffeiana, dal nome di Scipione Maffei, uno degli accademici veronesi, storico, drammaturgo, diplomatista, paleografo ed erudito. La presentazione del libro è dunque avvenuta nel foyer del teatro, chiamato "Sala degli Specchi" per le tante decorazioni dorate e gli specchi ivi presenti. Per inciso, un luogo suggestivo e molto ampio ma non acusticamente ottimale, affetto da sensibili echi e riverberi che non hanno di certo favorito la comprensione del parlato. Altro fondamentale "topos" i tre relatori: Gianni Tangucci, Francesco Libetta e Cecilia Gasdia, persone autorevoli, forti di conoscenze e un vissuto artistico che ben pochi nel nostro Paese possono vantare. Un terzo e ultimo (ma certamente non ultimo) "topos" è il libro che in questo uggioso pomeriggio veronese si è inteso presentare. Ma chi è Gianni Tangucci, quella persona che Libetta ha con tanta convinzione voluto trascinare in questo progetto editoriale? Un professionista di lungo corso che ha sicuramente tantissimo da raccontare. Nato a Pesaro nel 1946, inizia gli studi musicali al locale Conservatorio "G. Rossini", diplomandosi poi in pianoforte al Conservatorio "B. Marcello" di Venezia.

 



Intraprende subito la carriera professionale in campo teatrale, in qualità di Maestro Collaboratore al Teatro "La Fenice" di Venezia, dove nel 1970 ricopre mansioni artistiche e organizzative. Nel 1978 assume l'incarico di Segretario Artistico e dopo soli tre anni, nel 1981, diventa Direttore dell'Organizzazione Tecnico-Artistica. Amplia la sua esperienza nel 1983, quando è nominato Assistente del Direttore Artistico del Teatro alla Scala, nel quale opera per due stagioni. Nel settembre 1985 è Direttore Artistico del Teatro Comunale di Bologna, carica che mantiene per le stagioni 1985/86 e 1986/87. Nelle stagioni invece del 1987/88 e 1988/89 figura come Direttore Artistico al Teatro "La Fenice" di Venezia, dopo essere stato Consulente Artistico all'Opera di Genova. Dal settembre 1989 a tutto il 1995 è stato Vice Direttore Artistico del Teatro alla Scala di Milano. Dal 1987 al 1992 Consulente Artistico al Teatro Comunale di Treviso, dove, con la collaborazione e la direzione di Peter Maag, ha promosso e seguito il progetto "La Bottega" per giovani cantanti, legata al concorso lirico "Toti del Monte". Dal 1995 al 1998 è stato Consulente Artistico al Teatro Regio di Parma, dal gennaio 1996 al marzo 2000 Direttore Artistico del Teatro Comunale di Bologna. Dall'aprile 2000 Direttore Artistico del Teatro dell'Opera di Roma.

 



Dal dicembre 2002 al 2006 ha ricoperto l'incarico di Direttore Artistico del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, dal 2005 è Consulente Artistico dell'Orchestra I Pomeriggi Musicali-Teatro Dal Verme di Milano, dal 2007 al luglio 2010 Consulente Artistico del Commissario Ministeriale al Teatro San Carlo di Napoli. Dal 2008 è Direttore Artistico della Fondazione Pergolesi Spontini. Nel 2009 ha lavorato in qualità di Consulente Artistico dell'Arena di Verona, dal 2011 è Direttore Artistico del Festival internazionale della Cultura di Bergamo. Una sequela d'incarichi davvero impressionante. Ha accumulato inoltre diverse esperienze di docenza, presso la Scuola Musicale di Fiesole, l'Università degli Studi di Parma (Dipartimento di Musicologia), l'Istituto Cattaneo di Roma; protagonista di un corso Master in management dello Spettacolo presso la SDA Bocconi e diverse altre Masterclass al Festival Internazionale della Cultura di Bergamo, alla Scuola dell’opera di Bologna, al Festival della Valle d'Itria. Infine, dal giugno 2013 è Consulente Artistico del Commissario Straordinario della Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.


LA PRESENTAZIONE DI "E LA GIOSTRA VA"

 



Non è la prima dedicata a questo libro, visto che Giovedì 22 U.S. era già stata organizzata a Milano, nel Ridotto dei Palchi "A. Toscanini" del Teatro alla Scala, una sorta di "premiere". Altre presentazioni itineranti seguiranno, secondo un ultimo aggiornamento a Firenze, Roma, Lucca, Venezia, Martina Franca e Macerata. Un passaggio importante quello milanese, registrato in un "post" pubblicato da Francesco Libetta su Facebook; oggi va così e bisogna fare i conti con i cosiddetti Social, destinati a diventare sempre più consegnatari dei nostri pensieri e della nostra quotidianità. Con un malcelato orgoglio il maestro galatonese rivendica l'idea di aver voluto galvanizzare la volontà del maestro Tangucci, coinvolgendolo nella stesura del libro. L'occasione di rendere pubblica la testimonianza di uno dei protagonisti della vita artistico/culturale italiana dev'essere stata una molla troppo forte per non desistere di fronte all'iniziale titubanza, per usare un eufemismo, di Gianni Tangucci. Purtroppo non ho presenziato all'evento in cui una buona mezza Milano musicale era presente, ma ho poi voluto recuperare in questa presentazione veronese, in compagnia di un parterre più raccolto, forse più idoneo nel ricreare lo spirito di una piacevole chiacchierata tra amici, una specie di "amarcord" tra ricordi e aneddoti narrati con spontanea levità, sotto cui tuttavia si celano delle verità che dicono molto di un ambiente e dei personaggi che lo popolano.

 



In aneddoto veritas sarebbe il caso di dire, forzando un po' il senso e la funzione di questo testo, che non è meramente quello di raccontare delle pur piacevoli "storielle", ma di rompere un'anfora all'interno della quale c'erano delle verità sinora nascoste. Cui prodest? È opportuno sottolineare che il libro non scaturisce da un uzzolo autoreferenziale del maestro Tangucci, personalità quanto mai lontana da questo tipo di atteggiamento, ma, sono persuaso, dalla sincera volontà di spiegare a un pubblico di non addetti ai lavori quei meccanismi che muovono l'intera macchina teatrale, sin nei suoi risvolti più pragmatici. Un testo prezioso anche dal punto di vista del semplice appassionato poiché scoperchia la fantastica macchina che c'è dietro le quinte delle rappresentazioni artistiche, di cui si solitamente all'oscuro. Francesco Libetta, con le sue ficcanti domande (non solo quesiti, ma spesso anche partecipazione attiva al racconto) espone al rischio che delle rivelazioni, talvolta prosaiche, possano privare l'appassionato della percezione di quell'aura dorata che circonda l'esibizione artistica. Un azzardo che a mio modo di vedere non sussiste. Anzi, avviene l'esatto opposto. Dopo aver letto "E la giostra va" si forma in noi la consapevolezza che tale clima dorato immaginato dallo spettatore, qualsiasi sia il contesto emotivo, rimane intonso nella sua suggestione nonostante la presa di coscienza di retroscena a volte non proprio esemplari.

Un'ulteriore conferma che l'arte, in qualità di sublimata mimesi ricalcata sulla vita, porta al superamento di tutti quei fattori che possono teoricamente remarle contro.

 

Cecilia Gasdia


E LA GIOSTRA VA - A SAUCERFUL OF SECRETS

"Il teatro non è altro che lo specchio del sociale. È un concentrato del mondo. Hai il brigante, hai quella che ama sedurre, hai l'integerrimo, hai il ladro, il pavido: il teatro è lo specchio dell'intera società."
Gianni Tangucci

 

Gianni Tangucci

Ognuno dei nove capitoli del libro porta alla comprensione della grande complessità sottesa al mestiere di direttore artistico, il quale dev'essere obbligatoriamente dotato della classica pazienza di Giobbe per poter lavorare con la necessaria serenità. In "Uffici e strutture", il capitolo d'apertura, non c'è afflato poetico ma viene elencata una serie di fattori pratici da dover sostenere. In questo tortuoso iter non c'è soluzione di continuità, nell'azione di un direttore come Tangucci, che non è soltanto un manager ma lui stesso musicista, tra le mille magagne da dover affrontare e il risultato finale dello spettacolo. Il Direttore Artistico deve dunque barcamenarsi tra le regole, per sovrappiù non sempre certe, la gestione dei fondi economici a disposizione, i problemi logistici legati alle rappresentazioni sceniche e una macchina direttoriale che si muove sotto la spinta del Coordinatore Artistico, del Casting Manager, Segretario Artistico. Si assiste nel libro a un avvicendarsi di particolari freddamente burocratici, con i quali bisogna comunque fare continuamente i conti, e altri più personali, dove Gianni Tangucci parla di professionisti che sono diventati anche degli amici, stabilendo con essi un legame affettivo e non meramente professionale. In questo continuo scambio di dare e avere emerge la fondamentale figura di Italo Gomez, colombiano di nascita e trasferitosi in Italia negli anni '60, dove per un decennio fu Direttore Artistico alla Fenice di Venezia.

 

Francesco Libetta

Certe figure entrate a pieno titolo nell'epos, come quella di Wanda Osiris, al secolo Anna Maria Menzio, vengono citate dall'intervistatore, Francesco Libetta, cui la "semplice" funzione di fare domande sta stretta, ma arricchisce, allargandolo non poco, il filo narrativo del maestro Tangucci. Non possono essere notazioni ordinarie quelle di un personaggio in grado di rievocare al pianoforte, con davanti lo spartito di una riduzione, le sonorità tipiche di un organico orchestrale, in grado di essere sia davanti che dietro la macchina scenica, approcciandosi camaleonticamente con lo spirito giusto in ogni frangente, anche quello di suggerire ai ballerini dalla buca dei mutevoli passi ritmici. Riaffiora nella sua memoria la fantasmagorica "serata navigante" a Venezia, che prevedeva un allestimento su due pontili ferroviari posti su una coppia di chiatte galleggianti. Toccare il tema della danza, sostanziato nel balletto, stava sicuramente molto a cuore a Libetta, noto entusiasta dell'arte coreutica, traspare dall'estrema pertinenza delle sue domande. Sono memorie che si risolvono tutt'altro che in echi nebulosi, ma acquistano dei contorni netti, raccontate in ogni occasione con dovizia di particolari. Con pochi ma sapienti tratti tangucci olografa la personalità di Pina Bausch, artista di pochissime parole, quasi mutacica, ma estremamente concentrata su quello che faceva.

 



Ma è nel capitolo "Direttori e compositori" che si realizza una coesione ancor maggiore tra intervistatore e intervistato, poiché Libetta è lui stesso direttore e compositore, autore di un'opera che vede una massiccia presenza della danza e quindi coinvolto in prima persona nel discorso, che non esclude dal suo novero anche la musica d'avanguardia. Nella profusione di reminiscenze gli addentellati mnemonici seguono un percorso ordinato, naturale e non faticoso da seguire per il lettore, anche questo è un pregio che non va dimenticato. Bastano poche righe per ravvivare la figura di Bruno Maderna, le sue occhiaie profonde e l'esprimersi in dialetto veneziano nel corso delle prove orchestrali. Tangucci cita l'episodio, per meglio dire l'incidente, con il direttore Nino Sanzogno, che mi piace qui menzionare senza tema d'incorrere nei rigori del Copyright, poiché lui stesso lo ha raccontato al pubblico durante la presentazione veronese. Allora suonava in orchestra il clavicembalo e la celesta. Il percussionista non riusciva a dare due colpi di cassa e allora Sonzogno chiese a lui di farlo con il piede. Ma la cosa non finisce qui. Gianni Tangucci aveva in partitura un'acciaccatura sul quinto movimento di un 5/4, ma il direttore batteva un 4/4, poi si fermò, guardandolo, mentre lui aspettava proprio quel quinto movimento. Sanzogno cominciò da capo e la stessa scena si ripetette.

 



Al che il direttore veneziano, che non era certo una persona pacata, gl'inviò una serie d'improperi, in perfetto stile toscaniniano. Tangucci allora gli fece notare, spaventato e con un filo di voce, che sulla sua parte aveva segnato in quel punto un 5/4 e che aspettava il quinto movimento. E Sanzogno: "E non me lo potevi dire prima? È un errore del copista". Ma sul carattere "spigoloso" dei direttori d'orchestra si potrebbe proseguire a lungo, comprendendo pure Ettore Gracis ed Ermanno Molinari Pradelli, senza dimenticare Gianandrea Gavazzeni. Un mestiere il suo che è al limite tra il routinario e il creativo e alle volte questa linea di demarcazione può diventare molto sottile, come nel caso delle nuove produzioni, quando bisogna mettere in scena un mondo sino a quel momento pensato solo dal compositore. Occorre una capacità di adattamento alle situazioni impreviste inimmaginabile. Ogni risvolto, anche pratico, passa sotto la lente d'ingrandimento nella conversazione a due, pure la resistenza al fuoco di un materiale come il legno lamellare, ancor più tenace del ferro in occasione di un incendio. Nel capitolo "Tradizioni e abitudini del suono" mi ha fatto molto piacere leggere delle riflessioni sul grande Carmelo Bene, di cui sono da anni un fervente estimatore, considerazioni che riconducono al cruciale tema della "ϕωνή", il dato sensoriale del suono che si riflette e allarga su ogni ambito umano.

 



Parliamo di colui che definiva una "vociaccia" quella di Aureliano Pèrtile, riconoscendo però come fosse estremamente efficace nel caratterizzare i personaggi (in particolare nel Trovatore di Verdi), contro l'ineguagliabile bellezza di timbro di Giuseppe Di Stefano. E qui sopraggiunge una considerazione molto interessante del maestro Tangucci, la quale fornisce una spiegazione del suo esercizio quasi eroico di pazienza durante il lavoro. Non era affatto agevole lavorare in teatro con Carmelo Bene, come anche con Karlheinz Stockhausen, ma ogni atteggiamento d'intolleranza verso artisti non facili avrebbe portato alla chiusura di molte porte, anche quindi a progetti di sicuro interesse. Si tratta di un capitolo in cui Francesco Libetta, grande conoscitore di tastiere e di storia della registrazione audio, dà un apporto più sostanziale negli equilibri della conversazione. D'altronde, Celibidache "docet", nel corso di un evento dal vivo esiste uno stretto rapporto tra spazio, ambiente e suono percepito che nessuna tecnica di registrazione, per quanto evoluta, può restituire all'ascolto. Il maestro Tangucci è persona solida, concreta e pragmatica, un dato evidente anche a chi non lo conosce ma lo sente parlare per un po', messo in luce da una domanda iniziale mirata all'inizio del capitolo "All'interno, all'esterno, lontano dal teatro", calibrata con abilità da Francesco Libetta.

 



Il quesito che pone riguarda l'interdipendenza tra società e teatro, come quest'ultimo tenda a uscire dai propri luoghi canonici (si ritorna ancora una volta al topos come leitmotiv...) per agire nei luoghi più imprevedibili. Ne viene fuori una risposta articolata, che dimostra come spesso (sempre?) lo spaziare del teatro non conosce limiti, coincidendo sostanzialmente con il mondo "tout court". Emerge allora l'attitudine a rappresentare un evento "En plein air", come condizione catalizzatrice di larghe folle e foriera di un'estensione partecipativa impensabile negli spazi confinati di un teatro, per quanto capiente possa essere. Ogni frequentatore di concerti sa quanto influisca il numero di persone presenti sull'efficacia delle dinamiche emozionali. Lo sapeva bene anche J. Brahms, quando affermava che per certa musica (si riferiva ai suoi Intermezzi Op. 117) "Anche un solo ascoltatore è di troppo". Anche la "vexata quaestio" dell'opportunità di usare l'amplificazione è presa in esame, e con obiettività, senza trascendere in scalmane audiofile, come condizionata dalle abitudini d'ascolto, oggi sempre più legate alla musica riprodotta. Escludendo aprioristici talebanismi è indubbio come un'opportuna tecnica di microfonazione, seguita magari da un ascolto su un impianto High-End, possa fornire una quantità di dettaglio e di nuance fini impercettibili da chi ascolta a una distanza di venti o trenta metri.

 



Si spiegano così certe affermazioni che possono sembrare in prima istanza paradossali, come quelle dell'appassionato che dichiara di sentire meglio in casa sul suo impianto che dal vivo. Un ampio affresco viene tratteggiato sul mondo teatrale giapponese, così diverso da quello europeo, con dei cenni sul fenomeno montante degli interpreti asiatici, giapponesi, coreani, cinesi, che hanno affinato progressivamente le loro qualità. Oggi siamo arrivati a un livello paritario di condizione formativa tra un asiatico e un europeo o statunitense. Ma ci sarebbe da chiedersi se il tipo di competitività esasperata che muove i giovani e giovanissimi cinesi, concentrata come un laser sulla prestanza tecnica, possa davvero giovare alla musica. Certo, per un asiatico non è semplice entrare, facendola sua, in una sensibilità squisitamente europea o mitteleuropea. Una volontà ferrea di primeggiare in campo musicale, l'enorme sacrificio sostenuto dalla madre di Lang Lang per mantenere marito e figlio, l'ambizione del papà a far diventare il figlio il primo pianista del mondo, sono tutti elementi che dimostrano una totale immedesimazione in ciò che si fa, un livello (alto o altissimo) che si desidera raggiungere a qualsiasi costo e sacrificio. Nel capitolo "pubblico e media; usanze e predilezioni" vengono descritte logiche che guardano anche agli interessi di botteghino, a proporre opere che stimolino l'attenzione di un pubblico generalista.

 

 

Non è particolare irrilevante la sincerità che sostiene ogni capitolo, oserei dire ogni frase e ogni parola di "E la giostra va", con tale spirito vengono dichiarate al lettore anche quelle non trascurabili notazioni sui meccanismi di mercato che condizionano le scelte artistiche e dei quali non si può non tenere conto. Pure per questo il libro ha molto da insegnare a chi si fa trasportare sulle soffici nubi dell'arte senza guardare cosa c'è sulla terra sottostante. Nel capitolo seguente "Studiare per il teatro, accademie, carriere, registrazioni. Divismi" il discorso si fa più complesso, viene quasi ribaltato quel rapporto mantenuto per gran parte del testo tra l'intervistatore (Libetta) e un intervistato che è chiamato a rispondere sviluppando un discorso. La relazione qui assume il carattere di una pressoché totale simmetricità tra due alte professionalità che entrano in particolari che potremmo considerare da addetti ai lavori. Tuttavia, anche in questo caso viene preservata quella cristallina chiarezza nell'esposizione dei concetti che favorisce un'agevole comprensione anche da parte di chi non è particolarmente addentro a certe dinamiche (ma già nelle ultime pagine del capitolo precedente si era avvertito un cambio di passo in tal senso). Il libro ha una chiusa felice con "Album di ricordi. Dialoghi fra generazioni e culture", dove assistiamo a un "amarcord" scandito da un rapido batti e ribatti, come si fa tra due amici nelle cui menti si affastellano avvenimenti e veloci reminiscenze.

 



Si parla di fotografie e il concitato avvicendarsi del dialogo ricalca la rapidità del susseguirsi di foto che passano tra le mani dei due. Molto divertente (e significativo della personalità di Gianni Tangucci) è l'episodio dei coriandoli, raccontato da lui stesso nel corso della presentazione veronese. Durante una prova generale entrò in corso una protesta dei macchinisti, con il risultato che non fu possibile fare il cambio di scena, a causa del palcoscenico disseminato di coriandoli. Per convenzione la pulizia del palco era destinata al macchinista più anziano, ma in quel caso la protesta ne aveva bloccato l'attività, quindi anche quella collaterale di spazzare il palcoscenico. Tangucci non si perse d'animo, afferrò la scopa e li rimosse lui stesso dal palco. La scena è stata immortalata in una fotografia scattata da Silvia Lelli. Sembra fantascienza ma le cose sono andate proprio così, lo certificano sia il racconto che la foto. Alla fine della lettura di questo appassionante libro uno è il dato che spicca su tutti, la crescita progressiva in noi di uno speciale rispetto per persone che, indefessamente e a dispetto di ogni evento avverso, tanto si spendono affinchè l'arte, il bello, possano arricchire la vita quotidiana di ciascuno di noi. Qui non si parla di teorizzazioni ma di vita vissuta intensamente e senza risparmio. Dobbiamo accogliere "E la giostra va" nella nostra quotidianità senza pompa, mettendolo nel conto delle cose di ogni giorno con un sorriso sulle labbra. Proprio come quello che ha sempre e comunque disegnato sul volto un musicista quando al termine di una rappresentazione ringrazia il pubblico.


Alfredo Di Pietro

Marzo 2024


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