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 Amiata Piano Festival 2016 - Baccus - Domenica 3 luglio Riduci


 

 

Antonin Dvořák (1841-1904)

Quintetto per pianoforte e archi N° 2 in La maggiore Op. 81
     1 - Allegro ma non tanto
     2 - Dumka: Andante con moto
     3 - Scherzo-Furiant: Molto vivace
     4 - Allegro


Franz Schubert (1797-1828)

Quintetto per archi in Do maggiore Op. 163 D. 956
     1 - Allegro ma non troppo
     2 - Adagio
     3 - Scherzo: Presto - Trio: Andante sostenuto
     4 - Allegretto - Più allegro


Quartetto del Teatro alla Scala

Francesco Manara: violino I
Daniele Pascoletti: violino II
Simonide Braconi: viola
Massimo Polidori: violoncello

Con la partecipazione di Silvia Chiesa (violoncello) e Maurizio Baglini (pianoforte)

 



A distanza di un anno non si sono ancora spenti gli echi della straordinaria serata conclusiva di Baccus dell'Amiata Piano Festival 2015, protagonisti il Quartetto del Teatro alla Scala e Maurizio Baglini. L'avevo sinceramente sperato ed è avvenuto: assistere anche quest'anno a un concerto con gli stessi musicisti, per sentirmi ancora una volta galvanizzato dalla loro arte. È sempre un gran bel sentire, insomma, ecco perché quando ho letto il programma di sala di domenica 3 luglio, un largo sorriso è apparso sulla mia bocca. Eccoli ancora sul palcoscenico, in gran spolvero, con il loro magnetismo più unico che raro, accompagnati da due artisti che hanno contribuito in larga parte a rendere grande questo Festival: Maurizio Baglini e Silvia Chiesa. Oggi non c'è nessun evento extramusicale a mettere i bastoni tra le ruote. La sala è piena, ci si ritrova in compagnia di tantissime persone. Come avviene in ogni serata, la presentazione à affidata a Vittorio Introcaso, che giustamente sottolinea questo dato. Annuncia con soddisfazione che la fetta di Baccus, rispetto all'anno scorso, ha riscosso un maggior numero di presenze. L'Amiata Piano Festival quindi cresce ulteriormente, sulle solide basi di un progetto di collaborazione tra la Fondazione Bertarelli, i musicisti, gli organizzatori e il pubblico. Il grande carisma di questi artisti elettrizza i presenti, che vedranno poi pienamente soddisfatte le loro aspettative. Nell'attesa, capita di ritrovarsi a parlare di musica con la persona che ci è seduta accanto, la si sente come amica anche se è la prima volta che la vediamo. Questa è anche la grande forza della musica, il suo impatto sociologico, il potere "ipnotico" che esercita su tutti, senza differenze di censo o d'età.

Il Teatro alla Scala è il più famoso al mondo, una delle istituzioni che con orgoglio l'Italia può vantare. Molto vasta è la sua attività: lirica, sinfonica, cameristica. Il Quartetto oggi presente è una sua costola, formato dalle prime parti dell'Orchestra del Teatro alla Scala: Francesco Manara primo violino, Daniele Pascoletti secondo violino, Simonide Braconi viola e Massimo Polidori violoncello. È la massima espressione che l'Italia in questo momento possa dare nel genere cameristico del quartetto d'archi. La sua prima formazione è storica e risale al 1953, quando le prime parti sentirono l'esigenza di seguire l'esempio delle più grandi orchestre del mondo. Nel corso dei decenni è stato protagonista d'importanti eventi musicali e registrazioni. Nel 2001, dopo qualche anno di pausa, quattro valentissimi giovani musicisti, già vincitori di concorsi solistici internazionali e prime parti dell’Orchestra, decidono di ridar vita alla prestigiosa formazione. Da quel momento inizia uno straordinario percorso artistico che la porta a essere una delle massime espressioni cameristiche in Italia e nel mondo.
Dà numerosi concerti per alcune tra le più prestigiose associazioni concertistiche in Italia e all'estero (Brasile, Perù, Argentina, Uruguay, Giappone, Stati Uniti, Croazia, Germania, Francia, Spagna,  Austria, Grecia e altri paesi). Il quartetto ha collaborato con pianisti del calibro di Bruno Canino, Jeffrey Swann, Angela Hewitt, Paolo Restani e Bruno Campanella oltre ad artisti del livello di E. Pahud, E. Dindo e il tenore J. Carreras. Numerose sono anche le loro prime esecuzioni di compositori contemporanei quali Boccadoro, Campogrande, Francesconi, Digesu, Betta e Vlad. Nel 2008 esordiscono in concerto al prestigioso Mozarteum di Salisburgo, nello stesso anno ricevono il premio “Città di Como” per i loro impegni artistici.

Nel 2011 il loro disco dedicato ai quintetti di Brahms e Schumann con pianoforte, registrato per la Decca, è stato recensito meritando cinque stelle dalla rivista Amadeus. Nel 2012, in seguito alla loro tournée sudamericana, ricevono il premio della critica come miglior gruppo da camera straniero. Nella prima parte dell'ultima serata di Baccus viene affrontato un autore che ha avuto una vita fortunata, Antonín Dvořák, popolarissimo musicista tardoromantico. Suo è il Quintetto per pianoforte e archi N° 2 in La maggiore Op. 81, opera splendida e molto godibile. Perché fortunato? Perché dalla Boemia emigrò in America e lì fece fortuna. Baglini dice che nella seconda parte c'è uno dei punti chiave di quello che con Claudio Tipa e la famiglia si è voluto costruire, un concerto "Memorial" dedicato a Franz Schubert, compositore morto a soli 31 anni in una casa senza mobilio, il quale non ha ascoltato durante la sua vita circa l'85% di ciò che ha composto, perché non aveva i mezzi per farlo e nessuno era interessato a una musica che il responso del tempo ha decretato grandissima. Nella serata è stato eseguito il Quintetto per archi in Do maggiore Op. 163 D. 956, in cui suonano due violoncelli invece di uno solo, per rammentare al pubblico che l'Amiata Piano Festival è improntato sulle diversità e anche in musica dello stesso genere strumentale possono esserci delle diversità. Si lancia il positivo messaggio di un'arte profonda, importante, di straordinaria bellezza. Se il quartetto d'archi vanta una storia gloriosa e un posto di primo piano nella musica da camera, non di meno il genere strumentale "a cinque" annovera dei capolavori che danno prova di come, sulla base dei quattro archi, si possano impiantare significative e felici soluzioni strumentali allargate.

Il Quintetto Op. 81 è di gran lunga il più noto dei due con pianoforte composti da Dvořàk nella stessa tonalità di la maggiore. In esso troviamo un'efficace mescolanza di stile romantico, di marca brahmsiana ed elementi folclorici, intesi non come ripresa di temi noti ma reinvenzione di melodie inedite su quei modelli. Questa composizione ha un linguaggio fresco, ardentemente romantico, nei due tempi esterni tradisce l'ambizione a costruire strutture formalmente complesse, sviluppate con ampiezza, mentre i movimenti centrali sono chiaramente ispirati al folclore. Il Quintetto formatosi per l'occasione si fa perfetto interprete di un clima connotato da una notevole vitalità ritmica, che diventa rustica negli scherzi. Dvořàk attinge a piene mani dal forziere della musica popolare ceca conferendo allo "Scherzo" caratteristiche del Furiant pur rinunciando all'alternanza di ritmi binari e ternari tipica di questa danza tradizionale boema. L'energia, il lirismo, le potenti impennate sonore immergono in una temperie particolarmente brillante. Rivivo nell'esecuzione quella tensione che avevo vissuto l'anno scorso all'Amiata Piano Festival, stessa tranche e stessa serata. Nell'occasione il Quartetto d'Archi della scala aveva suonato l'Adagio e fuga per quartetto d'archi di W.A. Mozart, la Grande fuga per quartetto d'archi Op. 133 di L.V. Beethoven e il Quintetto Op. 44 per pianoforte e quartetto d'archi di R. Schumann, con Maurizio Baglini al pianoforte. Di carattere opposto sono i due movimenti centrali in carattere di danza, meditativa e malinconica la Dumka, canto popolare russo-slavo, trascinante lo Scherzo-Furiant: Molto vivace. Un'opera multicentrica, disinvoltamente eclettica nella fusione di svariati elementi compositivo-stilistici raccolti in una composizione che potremmo definire "ad alta godibilità".

L'intesa tra gli interpreti è impeccabile, Maurizio Baglini ancora una volta si dimostra camerista perfetto. Se da solista è difficilmente incasellabile in un rigido stile interpretativo, risultando sempre imprevedibile e innovativo, in ensemble si integra duttilmente con gli altri elementi, ne segue i frangenti emotivi con puntualità e rispetto. Con Franz Schubert si scende verso profondità abissali. La morte era ormai alle calcagna del compositore viennese e il sublime Quintetto per archi in Do maggiore testimonia del fuoco creativo che lo consumò nell'ultimo periodo della sua breve vita. Sentiva di avere ancora poco tempo per esprimere una tale quantità d'idee musicali da poter riempire non una ma due vite. Questo Quintetto è universalmente considerato la sommità cameristica di Schubert, una composizione che rivela la tensione a superare ogni limite. Orchestrale nella concezione, estremamente dilatato nella forma, ardito nell'armonia e nelle modulazioni tanto da risultare di difficile comprensione ai contemporanei. Lungamente obliato nei programmi di sala, si tratta di un capolavoro dalla profondità a tratti quasi insondabile che stasera è emersa in tutta la sua grandezza. Non si può negare che l'ultimo periodo creativo della parabola schubertiana abbia quasi del soprannaturale. Riferendosi al periodo estremo, si può a ragion veduta parlare di una costellazione di composizioni, tante splendenti stelle generate dalla una fervente immaginativa musicale di un genio. Il Quintetto per archi in Do maggiore Op. 163 D. 956 fu ultimato a distanza di poche settimane dalla morte, canto del cigno della sua produzione cameristica.

E' indubbiamente molto particolare la formazione scelta, che prevede non l'aggiunta di una viola come più comunemente avveniva, ma di un violoncello, opzione significativa della volontà di conseguire una timbrica più profonda, più scura. Ma non si tratta solo di questo, il raddoppio al basso del violoncello consente un infittimento della tessitura e apre a un'espressività più ricca. Un violoncello in più e tutto magicamente cambia. A Franz Schubert evidentemente non era sufficiente disporne di uno solo perché non bastava a comunicare compiutamente l'anima scura di cui questa composizione è pervasa. La musica del compositore viennese è di una pregnante attualità, entra con naturalezza nel nostro quotidiano, senza clamori o arroganza. Il Quintetto ha una durata notevole, circa un'ora, manifestando la tendenza a una certa dilatazione formale, quasi un laboratorio di ricerca che unisce molteplici relazioni tra timbrica, armonia e profondità espressiva, necessarie a simboleggiare un mondo interiore ricchissimo e tormentato. Senza nulla togliere al bellissimo Quintetto di Dvořàk, è con Schubert che si raggiunge il momento più alto della serata. Nel celestiale Adagio tripartito si raggiunge un clima paradisiaco che avvince tutti, s'instaura una tale magia che anche chi è a digiuno di musica classica non può non rimanere conquistato da tanta forza emotiva. Con lo Scherzo: Presto - Trio: Andante sostenuto, l'uditorio riceve come una scossa da un tema che trae vigore da potenti accenti. Il tema è in tonalità di Do maggiore, enunciato due volte. Dopo il volo dell'Adagio si ritorna perentoriamente sulla terra. Silvia Chiesa, secondo violoncello, dimostra sopraffine doti cameristiche nell'inserirsi con spontaneità all'interno del flusso musicale di una formazione sperimentatissima come il Quartetto del Teatro alla Scala. Non comune è la matericità di suono che si raggiunge nel registro grave, come un'onda calda che avvolge e colora ogni frase proiettandola in una luce crepuscolare.

Chissà che nell'Amiata Piano Festival 2017, sezione Baccus, nella serata finale non si possa ancora avere il privilegio di ascoltare questi fantastici artisti.
Sarebbe come l'avverarsi di un bellissimo sogno ricorrente...


INTERVISTA A MASSIMO POLIDORI, VIOLONCELLISTA DEL QUARTETTO D'ARCHI DELLA SCALA



Alfredo Di Pietro: Ho avuto la fortuna di conoscere il vostro magnetismo, la vostra incredibile "vis" interpretativa l'anno scorso. Un'interpretazione come quella della Grande Fuga in Si bemolle maggiore Op. 133 di L.V. Beethoven non si dimentica facilmente. Se è un senso di estrema drammaticità quello che avete voluto trasmettere con Beethoven, qual è il messaggio che volete portare con A. Dvořák e F. Schubert?

Massimo Polidori: Sono due mondi abbastanza lontani tra di loro. Dvořák presenta delle atmosfere sia boeme che un po' americane. Comunque il ritmo e la cantabilità si alternano con grande naturalezza, anche nei momenti di danza, come nella lenta Dumka. Si tratta di un quintetto di immediata comprensione che arriva subito all'ascoltatore, il quale viene coinvolto come in un turbine. Beethoven è molto più difficile da avvicinare mentre Schubert è ancora un altro mondo. Secondo me Schubert non appartiene a questo pianeta, rappresenta un'altra dimensione, le sue melodie si susseguono con incessante naturalezza e ammaliano. C'è quasi una sorta di ipnosi. In lui il vortice sonoro si realizza non attraverso il ritmo e l'energia coinvolgente ma è più un rapimento. Il secondo tempo del suo quintetto (Adagio) è un capolavoro assoluto.

ADP: Vi presentate in quest'occasione come un ensemble cameristico allargato al pianoforte e a un altro violoncello. Un quartetto che diventa un quintetto: come viene vissuta questa stimolante situazione da una formazione già dotata di assoluta autonomia espressiva?

MP: In entrambi i casi come un arricchimento. Con il pianoforte c'è un accostamento anche timbrico diverso perchè questo è uno strumento a percussione, mentre con un altro violoncello che si dedica maggiormente alla tessitura bassa, si allarga un po' lo spettro timbrico degli archi, attira il suono verso il basso. Nello stesso tempo lo trasforma in un qualcosa che è più di un quartetto e più di un quintetto diventando una piccola orchestra da camera.

ADP: Come influisce su di voi una cornice così suggestiva, nell'architettura e nel paesaggio, come quella dell'Amiata Piano Festival, vi sentite in qualche modo portati a una partecipazione emotiva diversa dalle altre?

MP: Senza dubbio questa è una cornice assolutamente unica, spettacolare, che aiuta anche a trovare la giusta concentrazione per suonare. È un ambiente incontaminato nel quale la commistione tra architettura e natura è avvenuta con grande genuinità e con grande rispetto. La sala poi ha un'acustica veramente straordinaria. È tutto l'insieme che ci rende felici.

ADP: Il Quintetto per pianoforte a archi Op. 81 di A. Dvořák crea delle atmosfere d'intenso lirismo. Fu scritto scritto in meno di due mesi ed è di gran lunga il più noto dei due scritti dal compositore praghese. Come si riescono a conciliare nella visione d'insieme momenti di grande cantabilità ad altri fatti di soprassalti sonori che rasentano la violenza?

MP: In Dvořák è tipica quest'alternanza. Anche le influenze americane l'hanno portato a esasperare alcuni aspetti, soprattutto quelli ritmici e di danza. Lo fa comunque rispettando contemporaneamente le sue radici che erano boeme, quindi di grande lirismo.

ADP: Altrettanto sublime è il Quintetto per archi in do maggiore Op. 163 D 956, facente parte dell'estrema, straordinaria stagione creativa di F. Schubert e terminato poche settimane prima dalla morte. Ci troviamo qui di fronte a un'espressività quasi presaga dell'imminente fine. Questa composizione spicca per la sua anima scura, nella scelta timbrica con il raddoppio al basso del violoncello come nella partecipata affettività che esprime. È stato difficile ottenere un'amalgama timbrica così avvincente, arricchita nella tessitura e virante verso toni più caldi?

MP: No, in realtà è scritto talmente bene che tutte le voci si amalgamano spontaneamente, senza sforzo. S'intrecciano senza mai sovrastarsi, piuttosto si supportano sorreggendosi a vicenda. Tutto quindi è avvenuto in maniera assolutamente naturale

Alfredo Di Pietro


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