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Montag, 30. Dezember 2024 ..:: Intervista al maestro Paolo Coggiola ::..   anmelden
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 Intervista al maestro Paolo Coggiola minimieren


 

 

Alfredo Di Pietro: Maestro Coggiola, la prima domanda è di rito: può dirci dove, come e quando nasce in lei la passione per la musica?
 

Paolo Coggiola: Ho iniziato a suonare il pianoforte da bambino, suggestionato forse dall’ambiente familiare paterno: i fratelli di mia nonna erano musicisti da ballo della Val Bormida, vicino a Savona, il fratello di mio padre ancora oggi suona strumenti popolari come la fisarmonica e ha sempre restaurato per passione vecchi pianoforti. Non ero certo un enfant prodige, ma fin dagli inizi aspiravo soprattutto a scrivere musica. A casa dei miei c’è ancora una specie di schizzo “composto” da me a cinque anni. Quando frequentavo le medie mi innamorai del jazz, ma fu solo quando iniziai il liceo che pensai di intraprendere un regolare percorso classico conservatoriale.
 

ADP: Lei ha compiuto gli studi musicali anche con Franco Donatoni. Cosa le ha trasmesso e cosa ricorda con maggior intensità di questo eminente compositore veronese?
 

PC: Ho frequentato corsi di perfezionamento con Donatoni: i miei principali maestri sono stati infatti Paolo Vaglieri e Bruno Bettinelli. Intorno ai vent’anni ammiravo molto la musica di Donatoni, ma stavo già maturando l’idea di coltivare un’espressioneche abbandonasse l’autoreferenzialità e i diktat delle avanguardie. In realtà, ancora oggi il mio atteggiamento si pone però a metà strada tra la fascinazione per una concezione “strutturalista”, preordinata, della composizione, e un’ineludibile esigenza di libertà espressiva. Di Donatoni apprezzavo la sua grande originalità, anche ludica, nel trattare lo strutturalismo di filiazione seriale. A me affascina in fondo da sempre l’idea di una “mano invisibile” che guidi la composizione. Detto questo,avvertivo già durante il suo insegnamento un grande iato tra automatismi di scrittura ed esiti sonori. Sentivo che il principio della “nota buona” e del controllo dell’orecchio era una necessità primaria. Per questo mi innamorai in quel periodo della musica di ArvoPärt, di fatto un rigoroso compositore strutturalista che però ha “riscoperto” la tonalità. Di Donatoni ricordo pure una grande energia e un grande senso dell’umorismo, ma tutto sommato il mio rapporto con le sue lezioni e la sua musica fu abbastanza tormentato.
 

ADP: Sempre ricordando Franco Donatoni e il suo concetto di "esercizio ludico dell'invenzione", come ritiene si siano evolute le tecniche compositive nell'ultimo mezzo secolo?
 

PC: Abbiamo assistito a una incredibile esplosione di sperimentazioni: accennavo prima anche alla dimensione ludica, il cui punto di riferimento primario fu Cage. Spesso però ho avvertito che un preponderante interesse per l’esplorazione tecnica, sia anche quando ha assunto una connotazione giocosa, esprime di fatto una profonda sfiducia nell’espressività e nella necessità di una diretta comunicazione con l’ascoltatore. Il panorama europeo degli ultimi decenni è stato dominato forse da tecnocrati (si pensi ai compositori francesi gravitanti intorno all’IRCAM di Parigi) e da nichilisti.
 

ADP: Riguardo le sue interessanti riflessioni sulla corrente musicale della “Nuova semplicità”, il riaccostamento a forme desuete come la sinfonia e il riavvicinamento a suggestioni tonali non è significativo del volersi smarcare da una musica (penso alla scuola di Darmstadt, il serialismo e la dodecafonia) che può sembrare in prima istanza cervellotica e poco comprensibile?
 

PC: È esattamente così, e questo era il senso anche della mia precedente risposta.La mia storia personale si lega a quella reazione alle avanguardie che in Italia prese le mosse negli anni Ottanta dal cosiddetto movimento neoromantico, che aveva qualche affinità con la “Nuova semplicità” tedesca. Oggi che in fondo abbiamo metabolizzato le istanze del “postmodernismo”, ritengo che la musica “d’arte” viva una drammatica, anche se a volte elegante, stagnazione. Se un qualche futuro ci sarà per una musica che derivi dalla grande tradizione classica, mi sembra necessario porre in primo piano l’esigenza di comunicazione, con delle forti conseguenze sul piano del linguaggio e delle tecniche.
 

ADP: Oltre alla compositiva, intensa è anche la sua attività musicologica. Mi riferisco in particolare al suo libro I valzer di Schubert, dove lei coglie con singolare efficacia il valore di queste danze in qualità di modelli per lo studio delle piccole forme, con una lettura che nel testo appare orientata all'odierna scuola analitica americana. È ancora possibile nell'odierno panorama compositivo riconoscere dei grandi contenuti in piccole forme?
 

PC: Penso di sì, e gli eredi di Schubert sono stati, paradossalmente, ad esempio i grandi autori di canzoni del Novecento: si pensi a Gershwin, a Porter, per arrivare dopo a Lennon e McCartney. Ritengo che si possa esprimere forse ancora qualcosa di originale coniugando, all’occasione, le piccole forme del linguaggio classico, che sono rivissute meravigliosamente nella popular music, con suggestioni derivanti dalla grande parabola classica.
 

ADP: Parlando di sue composizioni (galeotta è stata la piattaforma YouTube) mi ha colpito la bellezza cristallina dei suoi 12 preludi e fughe, composizioni che suonano come un richiamo bachiano, in realtà foriere di una sensibilità del tutto personale. In esse ritrovo la nostalgia e allo stesso tempo la ricreazione di affascinanti geometrie musicali. Le credevamo perdute, ma esistono ancora. Con quale spirito si è approcciato a questa magnifica creazione artistica?
 

PC: Amo da sempre la riflessione sulle tecniche e le forme del passato, e ciò si lega a doppio filo anche alla mia attività didattica. Nel corso della vita mi sono accorto poi che il contrappunto è stata una sorta di ancora di salvezza in momenti critici o di passaggio. È in uno di questi ho che composto i brani di quel ciclo, suggestionato sicuramente da altre e ben più grandi rivisitazioni bachiane del Novecento come i 24 Preludi e Fughe di Šostakovič. Ma mi preme dirlo, il mio interesse per il passato non vorrebbe avere nulla di nostalgico o di reazionario: da questo punto di vista non mi sento un conservatore ideologico. Ritengo invece che certe tecniche e una sensibilità per la melodia e l’armonia siano principi universali, che possono essere continuamente rivisitati e offrire sempre gioia e bellezza.
 

ADP: Un'altra composizione che mi è molto piaciuta è la Missa Brevis per coro e orchestra. La luce tutta particolare che emana questa proiezione nella spiritualità le confesso che ha fatto vacillare il mio agnosticismo. Una constatazione: la musica, con la sua sensorialità, può influire anche sul nostro modo di pensare, convogliandolo verso strade che mai avremmo pensato di battere.
 

PC: Non sono credente, ma ho un grande rispetto e interesse per i simboli. Paradossalmente mi sono trovato negli anni a comporre diverse composizioni su testi sacri. Ma penso che la musica possa avvicinare alla trascendenza, non importa se connotata in maniera religiosa, e questa trascendenza è proprio ciò che mi spinge quasi sempre a scrivere musica. Sì, ritengo che la musica possa avere ancora una grandissima forza di fascinazione spirituale. Anche con un linguaggio semplice e comprensibile, come forse nella mia messa. Il fatto poi che la musica sia un’arte asemantica, può convogliarla sempre verso esperienze psichiche e interiori imprevedibili e sorprendenti.
 

ADP: E veniamo ora ai recentissimi Due Sonetti di Petrarca e ai precedenti Due Sonetti di Dante, registrati dall'Ensemble Voyagers per l'etichetta Preludio. Si tratta di composizioni che appaiono come insolite nel panorama musicale contemporaneo. Hanno prima di tutto una grande suggestione sonora intrinseca, una sorta di ponte aggettato tra il linguaggio musicale moderno e uno spirito ancestrale, messo in risalto dall'utilizzo di strumenti antichi. Insomma, ho trovato in questi quattro sonetti una magnifica commistione di antico e moderno. Com'è nata l'idea di queste composizioni?
 

PC: La composizione di questi brani è stata una proposta dell’amico Daniele Montagner, fondatore dell’Ensemble Voyagers, che da diverso tempo esplora attraverso strumenti antichi, medievali, repertori arcaici e popolari, con un interesse a commistioni contemporanee. È un modo di pensare che sento particolarmente vicino, e quindi ho accolto con entusiasmo la loro proposta, imbarcandomi in questa folle esperienza di scrivere musica odierna vocale accompagnata da strumenti antichi, che hanno tutta una serie di limitazioni tecniche di cui bisogna tenere conto. Ho scritto questi brani con il massimo rispetto di testi così importanti della nostra tradizione letteraria. Ma proprio per questo non volevo assolutamente che la musica andasse a sovrapporsi, a interpretarli in una maniera ridicolmente intellettualistica. Mi sono affidato principalmente alla cura della parola e al desiderio di cogliere quelle suggestioni universali cui accennavo nelle precedenti risposte. Ho scritto di fatto, sulla scorta delle canzoni medievali, delle vere e proprie canzoni odierne, senza grandi preoccupazioni filologiche o stilistiche. Mi piaceva l’idea di ricreare un’aura, delle suggestioni, ma in un modo che quei testi e quella sensibilità potessero essere ancora apprezzati per delle pure opere d’arte, con messaggi per noi oggi forse lontani, ma misteriosamente potenti e affascinanti. Da sempre amo musiche sospese nel tempo, che nei casi migliori superano la contingenza e l’ansia di essere a tutti i costi “contemporanee”.
 

ADP: Lei è anche laureato in Giurisprudenza, cosa che lo accomuna per ecletticità ad altre importanti figure artistiche del passato. Penso a SergiuCelibidache, che si laureò in matematica e filosofia, oppure a Camille Saint-Saëns, il quale si dedicò allo studio della geologia, archeologia, botanica, matematica ed entomologia. Come mai ha pensato di conseguire tale laurea?
 

PC: Dico la verità: per quieto vivere familiare. Da giovane avevo una memoria particolarmente sviluppata, e gli studi di legge mi hanno permesso di coltivare i miei amati studi musicali senza dedicare grande sforzo a quelli universitari. Ho trovato quel percorso di studi per me particolarmente plumbeo e noioso, ma ritengo che mi abbia lasciato una certa fascinazione per aspetti procedurali e in relazione alla riflessione sul concetto di norma, così centrale anche nella prassi artistica tradizionale. La norma come convenzione o come aspetto di natura: un ambito in cui si può ragionare e discutere all’infinito.
 

ADP: Maestro, mi consenta un'ultima domanda. Torniamo a bomba alle sue pubblicazioni, nel volume L'abaco e la rosa, sottotitolato "Tecniche elementari per la composizione musicale" lei traccia un sapiente excursus interdisciplinare dedicato a coloro che desiderano avvicinarsi alla composizione musicale. Che valore lei attribuisce alla divulgazione come catalizzatore di inesplorate passioni e interessi?
 

PC: Oggi viviamo un momento di straordinaria fortuna della divulgazione: scientifica, culturale e artistica. Purtroppo molta divulgazione si rivela generica o fuorviante. Ed è un vero peccato, perché la divulgazione è cosa utile e preziosa. Ammiro chi riesce in questa delicata impresa, che è una vera e propria arte. Il malinteso è che la divulgazione sembra spesso essere concepita per rendere tutto facile e raggiungibile senza fatica. La divulgazione si dovrebbe coniugare alla chiarezza e aprire prospettive. La cosa più importante resta la possibilità di avvicinare, prima di quella di “spiegare”, ad ambiti di fascinazione culturali ed estetici. D’altra parte chi si vuole avvicinare, come ci si avvicina a un sentiero di montagna, a un quartetto di Beethoven, deve essere disposto a dedicare tempo ed energie ad ambiti della creatività e dello spirito, che possono solo arricchire.
 

Alfredo Di Pietro
 
Aprile 2024


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