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domenica 23 febbraio 2025 ..:: Intervista al maestro Emanuele Delucchi ::..   Login
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 Intervista al maestro Emanuele Delucchi Riduci

 

 

ADP: Maestro, nel rigraziarla per l'intervista concessami, come prima domanda le chiederei dove, quando e come è insorta la sua passione per la musica.

Emanuele Delucchi: Sul quando e il come è semplice. Io vengo da un paesino che si chiama Varese Ligure, nell'entroterra della Liguria, piccolo ma che ha avuto una bella tradizione culturale poichè residenza estiva di nobili genovesi sin dal 1700. Per quale motivo dico questo? Perché prima che nascessi un gruppo di giovani del paese, melomani e molto appassionati di lirica, aveva cercato di portare in questo l'opera, collaborando a vario titolo, formando un coro e cantando in esso, facendo le scenografie a mano. Così questi giovani erano riusciti a rappresentare una Bohème. Tra i melomani c'erano anche i miei genitori. Nel paese si respirava un po' quest'atmosfera musicale e anche in famiglia. Essendo il mio papà un pianista dilettante, sono stato sempre circondato da musica eseguita in modo molto amatoriale. Non era una musica "cittadina", non è che si andava ai concerti tutte le settimane, ma un po' diversa. Per esempio, quand'ero piccolo si ascoltavano le cassette che venivano pubblicate in edicola ogni settimana su Pianoforte, era una scoperta piuttosto provinciale, fatta un pezzo alla volta, niente d'immersivo. Poi a un certo punto mi è sorta effettivamente questa vocazione, grazie anche al mio papà che mi aveva dato i primi rudimenti. In seguito ho proseguito la strada abbastanza velocemente.

ADP: Vorrei andare subito alla domanda forse cruciale di quest'intervista: come mai ha deciso di affrontare, impavidamente, un "monstrum" della letteratura pianistica come i 53 Studi sugli Studi di Chopin composti da Leopold Godowsky?

ED: Questa è una bella domanda. In realtà ci sono vari motivi, non uno solo. Prima di tutto sono sempre stato attratto dalle cose complicate, avendo costantemente avuto una certa fascinazione per la complicazione. Perciò, una volta scoperta l'esistenza di questi studi, che avevano fama di essere le cose più complesse in assoluto, ne sono stato calamitato. In realtà ho provato molti anni fa a leggerne qualcuno, ma senza nessun costrutto. Io leggo molto velocemente però il primo approccio con il primo studio è stato traumatico, nel senso che nel giro di un mese ne avevo letto due righe o poco più, dunque mi sono detto che non li avrei mai suonati. Combinazione però ha voluto che alcune circostanze mi consentissero di passare più tempo su questi lavori. Purtoppo ho attraversato un periodo poco propizio della mia vita in cui avevo perso la voglia di suonare, una sorta di lieve depressione, notai tuttavia che provare a leggere quella musica era una cosa che mi costringeva a stare sul pianoforte. Succedeva perché è così tanto complicata che il cervello non può pensare ad altro se non a stare in quel momento concentrato su quello che sta facendo. Una volta superato questo brutto periodo mi sono però ricordato, con riconoscenza, della funzione positiva che avevano avuto questi brani e allora ho deciso di studiarne una buona fetta. Ero a un certo punto riuscito a metter su tutto il primo libro e poi nel 2016 decisi d'incidere tutta la prima parte, quindi due libri e mezzo per un totale di ventisette studi. Avevo pensato di fermarmi a questi, poi però mi sono detto: "Dato che ho fatto trenta, faccio trentuno" e li ho completati tutti. All'inizio mi erano sembrati sufficienti i primi ventisette poiché avevo fatto una fatica tremenda, ma riflettendo ho poi pensato che sarebbe stato un peccato non provare a suonare anche l'altra metà. Li ho quindi eseguiti e registrati integralmente nel 2018 e poi, recentemente, m'è venuta di nuovo voglia di farli dal vivo in un unico giorno, che è una cosa effettivamente un po' bizzarra in quanto sarebbero necessari due concerti un po' distanziati tra loro. Ho considerato che tutto sommato è un'idea carina quella di fare una sorta di maratona, dunque un primo concerto, una pausa e un secondo concerto. Sono due ore e quarantacinque minuti di musica separati da un intervallo. Li ho ripresi anche sollecitato da una mia convinzione, forse sbagliata, che oggi li so suonare un po' meglio rispetto al 2018. Li ho presentati a Cagliari, Genova e Padova, in tutte queste circostanze sono andati molto bene riscuotendo un bel successo. Dal canto suo il pubblico è stato molto contento, non parendo oberato da questa maratona, divertendosi come mi sono divertito io.

ADP: Se posso permettermi una piccola riflessione, suonandoli tutti l'ascoltatore riceve una visione complessiva più chiara dell'opera.

ED: Esatto. Poi c'è un altro elemento da considerare: se io li ascolto in disco perdo la gestualità, soprattutto per i brani affidati alla sola mano sinistra. Impressionano anche solo ascoltandoli in disco, certo, però lo fanno solamente se una persona è costantemente concentrata sul fatto che sono eseguiti a una mano sola, mentre se vede che il pianista appoggia la mano destra sullo strumento e la sinistra fa tutto da sola, può apprezzare non solo il gesto ma anche quanti spostamenti fa e con quale velocità.

ADP: Come il Rivoluzionario...

ED: Esatto, proprio così, La caduta di Varsavia, uno studio sullo studio estremamente difficile ma allo stesso tempo scritto molto pianisticamente. È quindi possibile farlo, anche se al massimo della difficoltà. Sul "possibile" e il "necessario" andrebbe fatta una precisazione. Qualcuno potrebbe eccepire: "Ma sono necessarie tutte quelle note?" Una nota di Beethoven è basilare perché dietro c'è una poetica, tutta una filosofia, mentre quelle di Godowsky sono spesso delle note possibili, cioè che indagano lo spettro del possibile e non sempre del necessario. Questa è un cosa importante da capire.

ADP: Trovo profonda questa sua riflessione perché, ascoltandoli, ho avuto l'impressione che l'autore volesse raccogliere dalla tastiera tutto quanto fosse eventualmente effettuabile.

ED: Esatto, proprio così.

ADP: Un virtuoso come Marc-André Hamelin, che ha affrontato quest'opera, ha detto: "Ci sono alcune persone che mi vedono solo come un mercante di tecnica, ma è una conclusione troppo facile cui giungere e dimostra poca familiarità con il mio lavoro. Il virtuosismo fine a sé stesso non c'entra nulla". Esiste secondo lei, eseguendo questi Studi sugli Studi, il rischio che il pubblico recepisca in maggior misura il dato di una tecnica fenomenale, che è comunque necessaria, e meno quello squisitamente musicale?

ED: Per rispondere bene a questa domanda bisogna mettersi daccordo su alcuni termini, su che cos'è la tecnica, cosa il virtuosismo e cosa la musica. Sui primi due possiamo concordare poiché la tecnica, almeno per me, è il poter fare al pianoforte quello che si vuole, semplicemente. Come diceva Verdi "piegare la nota al volere", riferendosi alla composizione, io dico che la tecnica è piegare la mano al volere o anche alla nota. Perciò, se io voglio fare un passaggio piano, legato, espressivo o con un po' di pedale a ricreare una certa situazione, ho bisogno della tecnica. Questa è l'apparato fonatorio del pianista, senza di essa non si può, letteralmente, suonare. Il virtuosismo è una sorta di sovrabbondanza di tecnica che si declina in due direzioni, o nella sprezzatura, quindi dare l'idea che non esista, oppure nel contrario, cioè nella sua esibizione, dando l'impressione che questa sia incredibile. A quanto si legge nelle recensioni dell'epoca, Liszt dava l'idea che tutto quello che suonava fosse un giuoco da bambini, e non mi pare che lui, per quanto così funambolesco, avesse una tendenza estrema alla spettacolarizzazione. Sapeva comunque benissimo creare dei gesti virtuosistici in modo plateale. La questione è un po' complicata perché virtuosismo e tecnica hanno una sorta di centro gravitazionale comune.

ADP: Spesso si fa confusione tra questi due termini.

ED: Certo, forse sono gradazioni che dipendono anche dall'ego dell'artista. Godowsky si arrabbiava quando lo definivano virtuoso, sostenendo che la sua musica non fosse virtuosistica. Probabilmente quando sentiva dire questo termine pensava al pianista che si sbraccia, che compie gesti incredibili provocando lo stupore tra il pubblico, ma effettivamente la sua musica non è così. Sta di fatto che chiunque veda un pianista suonare la musica di Godowsky non riceve l'impressione che questo stia facendo fatica, poiché è tutto un lavoro mentale di grande tecnica. A vederlo, è molto più impressionante un primo studio trascendentale di Liszt, anche se risulta molto più semplice da eseguire rispetto a uno qualunque degli Studi sugli Studi di Godowsky. Questi sono il virtuosismo e la tecnica, mentre riguardo alla musica io non so cosa sia, non l'ha mai capito nessuno e non ha senso arrovellarsi. È una cosa indicibile, sarebbe come spiegare cos'è la felicità, la avvertiamo solo per pochi momenti e comunque anche in questi forse non sarebbe possibile dire a parole cosa si sta provando. È certo che se una persona va ad ascoltare un concerto con musiche di Godowsky non lo fa con lo stesso spirito con cui va a sentire gli ultimi quartetti di Beethoven. Mi sembra ovvio. Con Godowsky non ci si aspetta di ricevere delle rivelazioni filosofiche, la sua musica è molto concentrata sulla componente pianistica, quindi se desidero ascoltarlo è soprattutto perché amo il pianoforte, non tanto perché gradisco la musica in assoluto. Rimane tuttavia il fatto che questa ha dei sentieri e delle vie che noi non possiamo conoscere, per cui può avvenire che una persona, anche se non conosce il pianoforte, ascoltando uno studio di Godowsky può trovarlo bello, musicale e affascinante anche più dell'originale. Alla fine tutto va contestualizzato. Tali studi sono veramente pianismo al cubo, partono da un materiale musicale già superbo, quello di Chopin, che è diametralmente opposto alla bruttezza. Alcuni Studi sugli studi, per esempio, spingono l'acceleratore sulla componente musicale. Faccio un esempio: Lo Studio Op. 10 N. 2 di Chopin è notoriamente difficilissimo perché esige di eseguire una scala cromatica con le dita deboli della mano destra, però, se siamo onesti intellettualmente, non possiamo dire che sia grande musica, è una scala cromatica con un accompagnamento molto semplice e modesto. Lo stesso autore non pensava di aver scritto con questo un testamento spirituale, tanto è vero che in una prima redazione, il primo e secondo studio dell'Op. 10 erano espressamente segnati come esercizi. Poi noi li abbiamo sacralizzati, ma non possiamo in tutta sincerità dire che sono dei capolavori. Godowsky nella sua versione di questi spinge l'acceleratore sull'aspetto musicale.

 



ADP: Io tra i due trovo più bello il primo.

ED: Certamente. Il secondo è affascinante, una sorta di volo del calabrone "ante litteram, però non è foriero di una qualità musicale che colpisce. Se Chopin avesse scritto un solo studio, e fosse quello, non penseremmo di certo a un monumento. Godowsky nella sua versione ne esalta allora la componente espressiva. Intanto gli da un titolo, chiamandolo "Ignis fatuus", fuoco fatuo, creando delle melodie, dei contrappunti. Lo fiorisce come se volesse fare a esso un'iniezione di musica. In tal caso il virtuosismo e la tecnica estrema sono imparentati con la volontà di creare della musica in più. Tutto è molto difficile e sicuramente mi sento di dire che se qualcuno si reca a sentire un mio concerto con tutti gli studi di Godowsky è mosso "in primis" da una componente di curiosità pianistica e poi può scoprire delle cose musicalmente molto belle.

ADP: Nei cinquantatre brani troviamo grandi complessità in termini di contrappunto, tessiture, armonie e anche ritmo. Il compositore stesso nelle note introduttive a questi Studi affermò che: "Il loro obiettivo è sviluppare le possibilità meccaniche, tecniche e musicali del pianismo, esplorare la natura dello strumento particolarmente adatta alla polifonia, poliritmia e polidinamica, e allargare la gamma delle possibilità timbriche". Possiamo allora considerarli come una sorta di attraversamento delle Colonne d'Ercole?

ED: Si, possiamo considerarli così. Effettivamente Godowsky viveva in un'epoca di grandi scoperte scientifiche, aveva un atteggiamento molto entusiasta nei confronti della tecnologia, delle nuove scoperte, per esempio dell'aereo, che lui una volta ha addirittura provato a pilotare. Essendo un entusiasta del progresso, potremmo dire che ha voluto far evolvere anche il pianoforte spingendolo oltre i limiti conosciuti. Si pensava che Liszt avesse scritto la parola definitiva sulle possibilità dello strumento, in realtà no poichè questi potevano essere ancora superati. Ma in quale direzione? Liszt aveva esagerato da un punto di vista muscolare, di tenuta, di brillantezza, il suo era un pianismo sovente molto fisico che voleva entrare in una specie di competizione con l'orchestra. Lo stesso dicasi per Alkan. Il campo che poteva rimanere da indagare era quello polifonico, cioè provare a creare una polifonia bachiana con i mezzi lisztiani, questo è quello che ha cercato di fare Godowsky. La polifonia porta naturalmente con se la polidinamica e il poliritmo. La prima è la capacità di creare più voci, dando a ognuna di esse una sua tenuta. Per esempio uno degli studi, il Minuetto, costruito sulla terza delle Nouvelles études, è scritto su tre righi ed è costantemente svolto con quattro linee diverse tra loro, nel senso che una è in staccato, una in legato, una in portato e l'altra fa da basso. Ognuna di esse è completamente indipendente dalle altre, esattamente come se a suonare fossero quattro mani. La bravura di Godowsky è stata quella di conciliare con tutti gli espedienti possibili queste quattro voci, in modo tale che fossero state nelle due mani. Si dice che la musica pianistica è tutto quello che è contenuto tra i due mignoli e lui è come se avesse voluto uscire da questi, anche in modo un po' misterioso (sorride). Il fatto che Godowsky abbia sorpassato Liszt lo dicevano anche i suoi contemporanei, lo ammetteva Busoni, Hofmann, Rachmaninov, tutti pianisti eccelsi. Obiettivamente c'è stato una sorta di attraversamento delle Colonne d'Ercole, un'esplorazione di nuovi confini che non erano stati ancora battuti. Forse inconsapevolmente, il pianismo godowskyano ha avuto un'eredità perché la musica contemporanea, che è certamente scritta in un altro modo e con altre funzioni, costringe il pianista a fare delle meraviglie impossibili, che però lui aveva già immaginato. In questi giorni sto leggendo la Sonata di Berio, composta nel 2001; non credo che questo compositore conoscesse Godowsky, la sua Sonata ha poi tutt'altri modelli, però mi rendo conto che tante cose estreme richieste al pianista in questa composizione le aveva già pretese Godowsky, di certo con linguaggi musicali completamente diversi. Ciò che a lui non è riuscito, o non ha voluto fare, è stato oltrepassare le barriere musicali e linguistiche, rimanendo fermo al 1800. Ciononostante, dal punto di vista pianistico è arrivato tranquillamente al 2000.

ADP: Citazione per citazione, Harold C. Schonberg li ha definiti "Le cose più impossibilmente difficili mai scritte per pianoforte". Credo tuttavia che lei sia riuscito a trasformarli in poesia, "eludendo" abilmente l'aspetto meramente funambolico. Si evince dalle registrazioni che ha rilasciato per l'etichetta Brilliant Classic, che denotano una cura e un approfondimento espressivo di assoluto rilievo. Un esempio su tutti lo Studio Op. 10 N. 3. Tra le tanti citazioni possibili, ne vuole per caso lasciare una anche lei che dia una cifra complessiva di questa colossale opera?

ED: Questo in realtà non so a cosa sia dovuto. Un elemento che forse mi ha aiutato è stato quello di scegliere un pianoforte dell'epoca di Godowsky. La poesia è un fatto insondabile, magari anche una questione di temperamento, di modalità d'esecuzione, ma non saprei esattamente da cosa possa provenire. Sono invece consapevole che aver utilizzato uno strumento dell'epoca mi può aver aiutato a rendere questi studi più "poetici". Parliamo di un meraviglioso Steinway del 1906, bellissimo, tutto intarsiato d'avorio (ci sono delle foto in rete), appartenente alla collezione di Marco Barletta, un fine conoscitore di pianoforti che mi ha segnalato questo strumento pazzesco. Storicamente gli Studi sugli Studi di Chopin risalgono al 1913/14 e quel magnifico Steinway è del 1906, ciò significa che in un certo senso sono tornati a casa, anche in quello della sonorità. È possibile quindi che questo abbia potuto dare un tocco diverso rispetto ad altre esecuzioni.

ADP: In considerazione della sua familiarità con questi autori, ritiene possibile azzardare un certo parallelo tra l'opera di Leopold Godowski e Charles-Valentin Alkan?

ED: Conosco un pochino entrambi e direi che non sono molto vicini. Hanno due tipi di virtuosismo diverso, quello di Alkan è ancora di matrice lisztiana, per quanto esagerato in certi aspetti, soprattutto dal punto di vista della quantità di note e masse di suono accordali. Alkan fa molto uso di accordi pieni, cerca di far risuonare il pianoforte in modo estremamente possente, anche più di quanto non faccia Liszt. Devo comunque dire che certo Liszt meno conosciuto si avvicina ad Alkan. Non bisogna dimenticare che gli Studi trascendentali sono la seconda versione dei Grandi studi, questi ultimi molto più difficili da eseguire e decisamente accostabili al pianismo di Alkan. Poi Liszt ha evidentemente capito che sarebbe stato più intelligente fare un passo indietro, in funzione sia musicale che anche d'impatto. Alkan invece era un intellettuale molto puro, non deviato da desideri spettacolaristici, che perseguiva una sua peculiare filosofia sonora. Non ha in realtà scritto solo cose complicate, per esempio il Libro dei canti contiene brani bellissimi e molto suonabili. Godowsky non ha parentela con Alkan, trattandosi di due tipi di difficoltà diversa, il secondo da un certo punto di vista è molto più facile da suonare perché non è così ipercomplesso, soprattutto timbricamente e polidinamicamente, se vogliamo maggiormente chiaroscurato. Godowsky presenta al contrario tantissime sfumature, anche tecniche. C'è forse un punto di contatto che, se qualcuno volesse fare un'indagine musicologica, sarebbe senza dubbio interessante: Alkan fu molto amico di Saint-Saëns, che a sua volta fu l'unico vero maestro di un Godowsky arrivato in Europa nel 1886, dopo la permanenza in America, per studiare con Liszt. Ma il grande ungherese morì e Godowsky si trasferì a Parigi andando a studiare con Saint-Saëns per qualche anno. Chissà allora se non abbia visto la musica di Alkan e gli sia venuta l'idea di oltrepassare qualche limite che presentava questo compositore. Al momento non possiamo saperlo e varrebbe la pena fare uno studio sulla questione, nella quale io non mi sono addentrato.

ADP: Che poi Alkan era molto amico anche di Chopin.

ED: Si, moltissimo. Tra l'altro Godowsky era polacco come Chopin, del quale fu interprete sopraffino, considerato uno dei migliori. Siamo insomma in presenza di tante vie che s'incrociano. Alkan, dal quale deriva un certo tipo di scuola francese, fu pure amico di Liszt. Isidor Philipp, maniaco della tecnica pianistica se non veramente ossessionato da essa, conosceva molto bene Alkan. Quando mi viene chiesto se Godowsky non fosse un maniaco della tecnica, io rispondo che semmai lo era Isidor Philipp.

ADP: Sull'onnipresente YouTube ho visto l'interessante presentazione del suo libro "Tecnica pianistica quotidiana" che lei ha fatto alla manifestazione Cremona Musica 2024. È un libro che può favorire, anche per un non addetto ai lavori, un approccio più consapevole all'ascolto della musica pianistica.

 



ED: Il libro è naturalmente pensato per i pianisti, in qualità di raccolta di esercizi tecnici. Più che tali, anche qui sarebbe interessante mettere una precisazione chiamandoli "ginnastica pianistica", atta a potenziare i muscoli della mano e favorire un maggior collegamento tra questa e la mente. Nella raccolta ho volutamente escluso qualsiasi vaghissima allusione alla musica, anche nel senso di combinazioni tonali. Molto spesso in questo volumetto utilizzo sequenze a inversione simmetrica della tastiera, che è un tipo di tecnica particolare per cui dal re la tastiera si specchia all'insù e all'ingiù, con un'identica sequenza di tasti bianchi e neri. Ovviamente, se si fanno questi esercizi non si percepisce una buona musica, infatti io consiglierei addirittura di farli potendo abbassare la sordina del pianoforte o comunque su una tastiera muta, per dire quanto non siano imparentati con la musica.

ADP: Però risultano utilissimi per la padronanza tecnica.

ED: Si e fanno riflettere su cosa noi intendiamo con tecnica e meccanica, particolare molto importante. Ritengo sbagliato parlare della differenza tra tecnica e musica perché senza tecnica non può fare musica. Se proprio vogliamo individuare una diversità, possiamo farlo tra meccanica e tecnica, citando un fattore molto terra terra e uno filosofico. Ho chiamato questo testo "Tecnica pianistica quotidiana" per una tradizione, però a rigor di logica avrei dovuto chiamarla ginnastica, solo che facendolo non si sarebbe venduta nemmeno una copia.

ADP: Dà però contezza delle vere finalità di questo libro.

ED: Purtroppo, o per fortuna, il pianista è anche una sorta di atleta e deve comunque esercitare le mani.

ADP: Una volta ho parlato con Michele Campanella e lui mi ha detto: "Sa, in fondo noi pianisti siamo come dei ginnasti."

ED: Esatto, bisogna esercitare la mano, educarla, allenarla. È una cosa fondamentale, non si può in alcun modo aggirarla.

ADP: Leggo da alcuni suoi interventi sul Social Facebook che lei è anche un appassionato bibliofilo. Quella per la musica e la lettura sono due passioni che in lei sono sempre andate di pari passo? Quanto una influenza l'altra?

ED: Anche questa è una bella domanda. Sterne diceva che ognuno ha il suo cavalluccio di legno, lo chiamava "Hobby Horse" ne La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo. È qualche cosa che fa divertire, che fa stare bene. Di sicuro la musica non è nel mio caso paragonabile alla letteratura perchè è un organo del mio corpo, funziona in un modo osmotico e non può essere separata. Io non potrei stare fisiologicamente dieci giorni senza suonare perché avrei proprio delle ripercussioni abbastanza serie muscolari e anche forse mentali. La letteratura e la filosofia sono invece il mio cavalluccio di legno, il giardinetto da coltivare e da curare, qualcosa di più che un hobby. Sul modo in cui s'influenzano reciprocamente posso dire che amo molto la letteratura, tanto che mi diverto ogni tanto anche a scrivere raccontini, cose da dilettante supremo. Mi svaga aiutandomi pure a capire come si possa alle volte vivere con entusiasmo e freschezza la musica, che, diversamente, potrebbe diventare una routine. Ci sono molte relazioni tra le due discipline, secondo me ad esempio non si può suonare Schumann se non si conosce Jean Paul, bisognerebbe probabilmente leggere Pan Tadeusz di Mickiewicz per capire Chopin. Credo che la letteratura aiuti a creare dei mondi espressivi che a loro volta agevolano una maggior espressività musicale.

ADP: Sono sempre stato convinto che la tastiera dice tutto di una persona.

ED: Certamente, si suona come si è.

ADP: La musica, lei potrà confermarlo o smentirlo, è un delicato interscambio tra vasi comunicanti. Nelle domande precedenti abbiamo parlato di virtuosismo estremo, ma può essercene anche uno celato in brani non particolarmente eclatanti dal punto di vista digitale?

ED: Certo. Se noi parliamo di difficoltà tecniche, una bagatella di Beethoven è ardua forse tanto quanto uno studio di Godowsky poiché ogni singola nota dev'essere calibrata in un certo modo. Ricordo che uno dei concerti in cui ho faticato di più è stato quello in cui ho suonato l'Op. 111 di Beethoven, il motivo è perché filosoficamente, musicalmente e spiritualmente, ogni nota non solo dev'essere eseguita bene ma pure vissuta bene e ciò stanca molto di più. Godowsky non necessita di essere vissuto in questo modo così viscerale, si può suonarlo serenamente senza queste implicazioni. Rammento che durante una prima lezione con il maestro Davide Cabassi, avevamo passato forse un paio d'ore sulle prime battute del quarto concerto per pianoforte di Beethoven. Due ore piene, non esagero, per appena quattro battute. Anche solo per fare bene quel primo accordo ci voleva del tempo, trascorso studiando gli staccati, legati, il pedale, la scaletta. Suonare il pianoforte è difficile, o meglio è facile, ma è complesso suonarlo molto bene, dunque la tecnica è necessaria proprio per riuscire a esprimere al meglio la sostanza musicale. Possono esserci delle difficoltà ben nascoste in piccolissimi passaggi, per esempio in una certa frase musicale di Chopin. Non nego tuttavia che frequentare una palestra tecnica, musicale ed espressiva come gli Studi di Godowsky mi ha dato una grossa mano, essendo un repertorio immenso di possibilità che, quando si ritorna a Chopin o ai classici, fornisce qualche strumento in più.

ADP: In una recente intervista che ho fatto al maestro Davide Cabassi, lui mi ha detto che per interpretare bene le ultime sonate di Beethoven, compresa la mia prediletta Op. 109, bisogna mettersi completamente a nudo.

ED: Esatto, è proprio quello che dicevo sul vivere ogni nota. Non si può semplicemente eseguire queste opere, ma bisogna viverle e questo vissuto si riverbera continuamente nella nostra interiorità

ADP: Lei ha brillantemente affrontato il Concerto per pianoforte solo di Alkan, opera i cui tre movimenti fanno parte della raccolta dei Dodici Studi in tutte le tonalità minori. È per caso daccordo con Adrian Corleonis, il quale ritiene che tale concerto rappresenti l'opera per pianoforte più crudele e faticosa prima del periodo di Kaikhosru Shapurji Sorabji e Ferruccio Busoni?

ED: Conservo dei ricordi meravigliosi della musica di Alkan perché il primo grande concorso internazionale che ho vinto è stato proprio dedicato alla sua musica, lo vinsi ad Atene l'otto aprile del 2012. Nella finale di questo concorso eseguii proprio questo concerto, che poi ho anche registrato per una produzione del Conservatorio di Genova. È un'opera molto difficile, all'epoca rappresentò per me uno sforzo notevole. Ricordo che la sera della finale, quando smisi di suonare quasi svenni nel retropalco per la fatica e la tensione accumulatesi, parliamo di un'ora di musica molto complessa. Non nego che qualche tempo fa l'ho riletto, poichè erano più di dieci anni che non lo toccavo, trovandolo in realtà semplice. Non so se ciò sia dovuto al fatto che sono maturato o che comunque essere a contatto con le cose estreme di Godowsky mi ha portato a ridimensionare Alkan. Sicuramente è un autore che anche nel caso di questa'opera si rivela molto affine alla musica di certo Saint-Saëns, cioè dal carattere orchestrale, ma non andrebbe dimenticato che Alkan scrive per uno strumento che non è lo Steinway ma l'Érard del 1800, dotato di un suono, di una corsa e leggerezza del tasto diverse. Non sottovaluterei d'altronde l'Hammerklavier beethoveniana, del 1816, composta prima del concerto di Alkan, non è che questa sia tanto più facile. Certo, ci sono delle cose spettacolaristiche in questo concerto, a un certo punto nella cadenza per un minuto e mezzo bisogna suonare solo con i medi, alternati furiosamente. Occorre resistenza fisica ma una volta che si trova la soluzione tecnica o meccanica si procede bene. Lo ritengo un brano molto affascinante che dovrebbe essere eseguito di più, lo meriterebbe non solo questo concerto ma anche altre cose.

ADP: A me piace molto Le festin d'Ésope.

ED: Quello è un altro dei Dodici Studi, molto simpatico e divertente. Hamelin ha contribuito a creare un ponte tra Godowsky e Alkan, però è un ponte sul quale io non farei molto affidamento, si tratta di binari davvero molto distanti. Forse Alkan è un precursore di Isidore Philipp, mentre con Godowsky alla fine si batte un percorso differente, non li sentirei dunque così tanto affini. Sono affezionatissimo a quel pezzo ma non so se mi ritornerebbe la voglia di presentarlo in concerto, a differenza di Godowsky, che ho desiderato riproporre al pubblico a distanza di qualche anno dell'integrale degli Studi sugli Studi di Chopin. In lui trovo l'attrattiva di tutta una serie di sfide particolari, di suono e ricerca, cosa che non trovo in Alkan.

ADP: In ultimo, caro maestro, una domanda che riguarda i suoi prossimi progetti. Può dirci quali saranno? In che direzione auspica possa andare nel futuro la sua sopraffina arte?

ED: Io toglierei sopraffina (ride). Tanto per cominciare a marzo inciderò un disco per l'etichetta Da Vinci Classics dedicato a Ferruccio Busoni, del quale l'anno scorso si è celebrato il centenario della morte. È una musica estremamente affascinante e caso vuole che Godowsky e Busoni fossero acerrimi nemici. A un primo approccio ho fatto un po' fatica ad accostarmi alla musica del grande empolese, non so se per una sorta di preconcetto mentale o perché sapevo che non correva buon sangue tra lui e il mio beniamino. In seguito ho trovato che non sono così lontani tra loro e, soprattutto, mi piace enormemente il fantasioso pianismo di Busoni. C'è però una differenza tra i due: Godowsky è essenzialmente un pianista, non un compositore da annoverare tra i maggiori, che non esce mai dal pianoforte, mentre Busoni è un grande compositore e intellettuale che ha scritto delle cose memorabili, tra cui il capolavoro operistico Doctor Faust. Lui ha voluto continuamente trasformare il pianoforte in modo metafisico. Nelle Elegie di Busoni si trova "Con angoscia", "Con angoscia suprema", "Trasfigurato", "Quasi trombe lontane", "Pauroso". Godowsky direbbe: "Cosa significa? Devo suonare più piano o più forte?" Trovo suggestiva la figura di questo alchimista che vuole trasformare il pianoforte in altro da sé. Ogni giorno rinvengo delle sfide molto stimolanti in questa musica. Il disco comprenderà la famosa Toccata, le sette Elegie e la Sonatina N. 4 "in diem nativitatis Christi MCMXVII", una musica che trovo veramente ammaliante e spero di essere all'altezza nell'interpretarla.

ADP: Io trovo molto bello Busoni anche quando raggiunge dei momenti di apoteosi basandosi su polifonie bachiane.

ED: Si. Lui aveva un senso della forma molto avanzato. Ho avuto la fortuna anni fa di suonare per una prova aperta il suo Concerto, che è un gigantesco monumento di musica grandiosa. L'aggettivo giusto è magica. Anche i suoi scritti sono magnifici, è stato sicuramente un precursore, un visionario. È stato eseguito abbastanza, ma lo poteva essere ancora di più, soprattutto in teatro, dove ha dato dei contributi di assoluto interesse. Per esempio, la sua Turandot, L'Arlecchino o La sposa sorteggiata. Mi occuperò anche di promuovere i miei due nuovi dischi che usciranno, uno con musica di Medtner è appena uscito in questo mese, con le due Sonate e Le melodie dimenticate Op. 39 e poi ancora uno dedicato a Godowsky che uscirà invece a settembre.


Alfredo Di Pietro

Febbraio 2025


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