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Wednesday, December 04, 2024 ..:: Chopin Selon Chopin - Francesco Libetta ::..   Login
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 Chopin Selon Chopin - Francesco Libetta Minimize

 

 

Recuperare le sonorità di un illustre passato può dire tutto o niente. La prima domanda che è lecito porsi di fronte a questo proposito è su quali basi venga avviato il processo di "repêchage". Una prima indicazione la riceviamo dal titolo dell'ultimo progetto discografico di Francesco Libetta per Sony Music: "Chopin Selon Chopin", dove il termine "Selon" significa "secondo", "conformemente a". Una volta letto potrebbe insinuarsi il sospetto di una mimesi mirata alla "comparizione" di uno Chopin redivivo che siede al pianoforte, pronto a suonare per noi. Un'altro degli ipotetici dubbi è che il nome dato a questo CD si profili come un "Hype", una delle tante frasi a effetto escogitata dall'ufficio marketing per aumentare i numeri di vendita. Ma chi già conosce il grande pianista salentino, il suo impareggiabile percorso artistico, non ha bisogno di alcun supplemento d'indagine per realizzare che entrambe queste ipotesi sono da rigettare con decisione, mentre per tutti gli altri occorre un minimo d'informazione. Su un Social come Facebook, per esempio, dove il maestro dispensa con prodigalità i suoi pensieri. In un post abbastanza recente ha parlato di premesse all'interpretazione, citando nomi come Gottfried Leibniz, George Dalgarno, John Wilkins.

I quarantanove livelli di significato cui fa riferimento il Talmud. Roger Bacon, i grammatici di Port Royal e le grammatiche generative trasformazionali di Noam Chomsky. Vladimir Nabokov. Questo per dire che sarebbe riduttivo considerare Francesco Libetta soltanto un grande virtuoso del pianoforte, essendo anche un intellettuale dalla cultura enciclopedica, con una vastità di orizzonti da far tremare le vene e i polsi. Pure compositore, direttore d'orchestra e scrittore. Quindi quell'eventuale nebbia che potrebbe appannare la vera accezione del titolo "Chopin Selon Chopin" è destinata a dissolversi per lasciar posto all'autentica natura di questa registrazione, in realtà nata su basi culturali molto solide. Un disco che raccoglie i frutti di un percorso che si presume piuttosto accidentato, indicativo di un intenso vissuto, tra anni di collaborazione con prestigiose istituzioni, insegnamento, un'indefessa opera di esplorazione, collezionamento, restauro ed esecuzione su pianoforti antichi, con una speciale affezione per gli ottocenteschi, proprio quelli sulle cui tastiere si posavano le mani di grandi compositori come Chopin e Liszt.

Tuttavia, per quanto meritorio, lo sforzo intellettuale compiuto a monte da solo non basta, poiché bisogna tradurlo in musica, vale a dire in un qualcosa di apoditticamente sensoriale. Nelle pregnanti note di copertina (tratte da un dialogo fra il maestro e Alessia Capelletti), si cita l'esempio storico di Ignaz Moscheles, il quale dichiarò di aver capito la musica di Chopin solo dopo averlo ascoltato al pianoforte. Ecco che arriviamo al cuore della questione, chiarendosi la scaturigine del non indifferente sforzo compiuto nel disseppellire il particolare approccio alla tastiera del grande polacco, il suo modo di suonare che già i contemporanei consideravano inatteso, la libertà d'esecuzione, spesso trascendente dal segno scritto, l'abitudine a preludiare prima del brano e attuare modifiche estemporanee alla partitura, le transizioni fra alcuni brani come richiamo. Non si deve nemmeno tralasciare, ai fini di una corretta visuale d'ascolto, il non comune approfondimento espressivo compiuto sull'autore, la lunga e meticolosa ricerca finalizzata a risalire alle fonti più veraci non solo delle partiture ma anche della prassi compositiva dell'epoca, viatico per quella peculiare del grande polacco.

Dall'altra parte un rischio di tedio si potrebbe paventare leggendo la "track list" della registrazione. Si perde il conto dei dischi dedicati alle "Hit" chopiniane, alle innumerevoli superfetazioni di "compilation" a lui dedicate. Pezzi stupendi daccordo, ma sin troppo inflazionati poiché si è già attinto a piene mani da quel tipo di repertorio. Bastano tuttavia poche note, l'inizio dello Studio Op. 25 N. 1, per comprendere immediatamente che qui siamo in presenza di un qualcosa che suona inedito alle nostre orecchie. La ricreazione di una temperie che avevo già presagito nel recital tenuto dal maestro il 23/10 U.S. in Sala Verdi del Conservatorio di Milano, poi sussidiato dalla presentazione del CD al Flagship Store Steinway & Sons il 6 novembre, sempre nella capitale lombarda. Ogni cosa è atipica in quest'album tutto da scoprire, come la citazione, per ciascuno dei quindici pezzi tranne che che per la Mazurka WN 14, del dedicatario, che può essere una figura maschile o femminile. Scelta credo non casuale in quanto mirata a stabilire un "liason" tra il legame personale dell'autore con una data figura e l'esternazione del brano in un ambiente comunque ristretto, salottiero. La diade compositore/dedicatario come cellula motivazionale di riferimento, suscitatrice di emozioni annesse e connesse.

In questa recensione, se da un lato sussiste il reale rischio di rasentare il didascalico esaminando d'infilata ciascun brano, essendo ognuno meritevole di speciale menzione, dall'altro non si può evitare di esprimere quanto è apprezzabile nel progredire dell'ascolto. Parlo delle sottili finezze agogico/dinamiche di cui è letteralmente disseminata questa registrazione, degli stringenti "coup de théâtre" che interrompono, talvolta bruscamente, quei momenti in cui l'interprete sembra si lasci un po' andare a un certo autocompiacimento. Si verifica un flusso musicale che sovente ci coglie impreparati con delle repentine virate espressive, anche se l'eloquio musicale in qualche frangente può sembrare eccessivamente limato, se non lambiccato, ben presto ci avvediamo che aderisce fedelmente non all'estro del momento, o peggio al capriccio, ma a delle logiche interiori congruenti con la primigenia ispirazione che il testo suggerisce. S'inizia a comprendere davvero quest'album quando si riesce a entrare nella sua circolarità, anche psicologica, dopo essersi liberati dalle mascheranti concrezioni interpretative accumulatesi nel tempo. Per dirla perentoriamente e con la massima semplicità, siamo in presenza di un disco toccante, di pura poesia.

Le visioni interiori che questa musica suscita con i suoi arabeschi sonori proliferano a ogni piè sospinto, sin dal primo dei Douze Études Op. 25, detto l'"arpa eolia". Le sestine di semicrome in Allegro sostenuto suonate da Libetta evocano un leggero sfarfallio, quasi impalpabile nella sua pulviscolare vaporosità, con il primo sedicesimo di ogni gruppo che delinea la melodia, lasciato emergere con un calibrato "voicing". Pensiamo per un attimo a cosa ne sarebbe della nobile liricità di questo brano se le dette sestine venissero eseguite con pedante pignoleria. Il dolcissimo Nocturne Op. 9 N. 2 è un Andante in 12/8 che viene eseguito con estrema libertà, l'antitesi di una regolare scansione ritmica, com'è giusto che sia in un brano desideroso di rincorrere cangianti stati d'animo. Le infiorescenze di abbellimento sono soppesate con somma eleganza. Nella Ballata Op. 23 il passaggio al "Meno mosso. Sotto voce" introduce chi ascolta in un'atmosfera fatata, nettamente diversificata dalla precedente, la quale culmina in un imperioso crescendo. Dall'architettura piuttosto complessa, l'Op. 23 è costituita da un'Introduzione, cinque sezioni e una coda, tutte ben differenziate a formare un grandioso affresco narrativo nel quale trovano posto un elegiaco lirismo e la nostalgia della lontana patria polacca.

 



Un condensato di pura poesia affrontato dal nostro pianista con una varietà di accenti che ha del sorprendente. A destarci dalle atmosfere vellutate è lo Studio Op. 10 N. 12 in Do minore, noto anche con i titoli apocrifi de "La caduta di Varsavia" o "Rivoluzionario", denominazione quest'ultima conferitagli da Franz Liszt, che è pure dedicatario del pezzo (À son ami F. Liszt). La tempra virtuosistica di Francesco Libetta qui ha modo di esprimersi appieno, aggredisce leoninamente un capolavoro che lui suona indifferentemente a una o due mani. Con la sola sinistra negli Studi sugli Studi di Chopin, una serie di cinquantatre originali riletture a firma di Leopold Godowsky, vera bestia nera per le difficoltà tecniche presentate, tanto che il critico Harold Schonberg li ha definiti "le cose più impossibilmente difficili mai scritte per pianoforte". Se per alcuni non saranno una sorpresa la vigoria e la determinazione con cui vengono affrontate le tumultuose quartine di semicrome in legatissimo dell'Allegro con fuoco (semiminima a 160), lo sarà sicuramente l'espressione riposta nella drammatica figurazione croma puntata/semicroma/minima.

In prima istanza un "f" urlante di dolore per il fallimento dell'insurrezione polacca, violentemente stroncata dalle truppe russe, ma che si ripresenta in "p" alla ventesima misura con un carattere agli antipodi, molto simile a quello di un'implorante preghiera. Questa mutazione semantica è resa chiarissima grazie a un'esemplare gestione dell'inflessione agogica, dalla fulminea variazione dinamica esercitata dal tocco sul tasto. Un breve passaggio preludiante ci conduce nel clima intriso di malinconia del Valzer Op. 34 N. 2, dove compare una "terza mano", della quale lo stesso pianista nella presentazione milanese del 6 novembre ha svelato l'arcano: "In uno spartito a stampa del Valzer Op. 34 N. 2, usato da una delle sue migliori allieve, Chopin stesso autografa una parte di canto suppletiva, una sorta di terza mano. Un compositore di genio come lui non poteva produrre una banalissima ripetizione, un raddoppio, ma scrisse un controcanto, non inteso come linea strumentale che va a integrare il pezzo. Però è di Chopin, per pianoforte e autografa. Io mi sono permesso una piccola libertà, inserendo questa parte nel Valzer perché è dell'autore stesso e dura poche battute: venti secondi contro i quattro minuti che dura l'intero brano."

Lo Studio Op. 10 N. 3 era particolarmente caro all'autore; si sviluppa secondo una struttura tripartita, dominato da una melodia di stupefacente bellezza, mentre nella parte centrale affiora l'intento virtuosistico, laddove Chopin scrive sulla partitura "con bravura". Un brano in apparenza non votato al virtuosismo, ma siamo proprio sicuri che questo sia identificabile in un'esecuzione rapidissima e precisa di note veloci e accordi complessi? Esiste in realtà anche un altro modo di essere virtuosi in questo brano, quello di mettere insieme la grande liricità iniziale con la drammaticità della sezione centrale, ritornando poi come se nulla fosse al clima disteso della prima parte. Potremmo immaginare un viaggio in mare che parte con il sereno, diventa procelloso "in itinere" e ritorna idilliaco alla fine. Ancora più semplice è il Preludio Op. 28 N. 7, Andantino che reca in partitura "dolce e semplice", una sorta di "reverse" se vogliamo del Rivoluzionario Op. 10 N. 12, con i suoi quarantadue secondi il più breve dell'intera silloge chopiniana. Con arrembante allegria si affaccia lo Studio Op. 10 N. 5 in sol maggiore "Black Keys" (foriero d'improbabili assonanze con la Black Page zappiana), questo sì virtuosistico con le sue veloci terzine di semicrome.

Anche qui il pianista pugliese amministra in maniera magistrale ogni frangente d'espressione, olografando con completezza l'universo del compositore. Perentorio nella precipitosa chiusa, costituita da una serie di dieci accordi discendenti in "fff". Nessun preludiare fa da introduzione alla Barcarola Op. 60, uno dei pezzi più suggestivi (e aggiungo enigmatici) della produzione chopiniana. Il cullio della barca sottoposto al moto delle onde è efficacemente ricreato dal ritmo in 12/8, anche in questo pezzo l'agogica è particolarmente brada e sembra seguire le inflorescenze di un pensiero musicale colto nel momento dello sbocciare, più che essere diretta emanazione del segno scritto. Enigmatico dicevo perché all'inizio "innocuo", di grande serenità, ma poi interrotto da mutamenti d'espressione che fanno di questa Barcarolle un qualcosa di molto speciale, insofferente com'è a una declamazione atona. Il Poco più mosso favorisce infatti la discesa verso regioni di maggior profondità emozionale, seguite dalla risalita alla superficie delle acque, con il ripristino di un nirvana che era stato appena impensierito dal Poco più mosso. Si ritorna a complessità "sinfoniche" nello Scherzo Op. 31, in cui la terzina ascendente iniziale sembra un ghigno satanico.

Il pianista si mantiene entro i limiti di una fascia sonora di media intensità, la quale gli consente di aumentare o diminuire la potenza di fuoco dello Steinway & Sons senza pregiudicare la qualità del suono, lo si capisce sin dalle prime misure nell'intervallo dinamico compreso tra l'arpeggio terzinato di crome in "sotto voce" e il taurino affondo degli accordi in "ff" che seguono. La stessa avvedutezza riservata alla dinamica la ritroviamo per altri versi nel tema cantabile, la stupenda melodia sgorga in modo spontaneo, intenso e ampio, evitando sentimentalismi o eccessive zuccherosità, un rischio che è sempre in agguato nell'esecuzione della musica di Fryderyk Chopin. Viene anche in questo caso sconfitta le sensazione di "Déjà-vu" che può suscitare un pezzo ultranoto e molto spesso eseguito come questo. Una vera perla di bellezza è la Berceuse Op. 57. Nel cullante andamento di ninna nanna Libetta rincorre e trova una delle sue più alte espressioni di artista sensibilissimo e multiforme. Questo Andante in tempo di 6/8 è innanzitutto uno degli ultimi capolavori scritti da Chopin, costituito da una serie di quattordici variazioni su un tema estremamente breve, originale del musicista.

Parliamo di sole quattro misure introdotte dal basso nelle due battute iniziali. Il brano si sviluppa in una progressione che sembra non aver mai fine, una sorta di "perpetuum" dove l'incantevole melodia è vieppiù arricchita con ornamenti e abbellimenti che alla fine entrano nella sostanza del tema stesso, con un procedere erratico e dal sapore fortemente improvvisativo. Qui la formidabile "palette" coloristica del nostro pianista ha ottimo gioco nel sollevare quella vaporosa nube di divagazioni che contano proprio sulla timbrica dello strumento in tutte le sue possibili screziature. Non devono essere poche le "rogne" tecniche che pone questo brano, il quale obbliga l'esecutore a mantenere costantemente evanescenti le sonorità, perciò restringendo al massimo la fascia dinamica, cose che richiedono all'esecutore una grande sensibilità e garbatezza di tocco. Pure un accorto uso dei pedali assume grande importanza. Veniamo investiti da un flusso di energia palpitante e in continua trasformazione nei tre Valzer dall'Op. 64, dove non c'è nemmeno l'ombra di un andamento pedestre e ritmicamente squadrato.

Ascoltando questo CD ho sovente ricevuto la sensazione che il segno scritto, per'altro rispettato dal pianista, diventi una sorta di pretesto dal quale attingere con grande libertà per dipingere a tutto tondo la complessa figura del compositore polacco. La sua poetica è posta costantemente al centro dell'attenzione, tutto il contorno dev'essere a questa funzionale. Il disco si conclude con il commiato della Mazurka in la minore, un pezzo oscillante tra malinconia e fierezza, dolore per la lontananza e orgoglio per le proprie origini. Di questo "Chopin Selon Chopin" non possiamo sottacere il considerevole carattere di "unicità" nell'attuale panorama discografico, con il fervente auspicio che il maestro Libetta sappia mantenere intatta un'ispirazione di tale elevatissima qualità. A beneficio nostro e della musica. Il CD è stato registrato nel luglio 2024 a Longomoso (BZ), uno Steinway & Sons Modello D. N. 582447 è il pianoforte utilizzato. Lo stesso Francesco Libetta ha curato l'editing della registrazione. La qualità audio è ottima e va in controtendenza per quel che concerne il posizionamento dei microfoni. L'odierno orientamento indica che questi siano posti molto vicini alle corde dello strumento, cosa che privilegia la cattura di ogni minima nuance ma, al contempo, appiattisce la prospettiva tridimensionale.

È una collocazione a mio parere alquanto stravagante, poichè si risolve in una specie di "realtà aumentata" e poi perché, molto semplicemente, nessun ascoltatore di un recital ha la possibilità di collocare la sua testa tra il coperchio e la tavola armonica di un pianoforte. Molto più opportuna appare dunque la scelta di ricreare l'acustica percepibile dalla prima o seconda fila di un auditorium. Quella senza meno più veritiera, conformemente alle desiderata di autenticità che questo disco persegue come se non ci fosse un domani.

 




Alfredo Di Pietro

Novembre 2024


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