Non mi pento certamente, oggi più che ieri, di aver definito Axel Trolese pianista intrepido. Il suo attuale progetto solo pochi interpreti sono giunti ad ambire e realizzare, quello cioè di fissare su disco tutti e quattro i Libri di Iberia, la nota suite per pianoforte composta fra il 1905 e il 1909 da Isaac Albéniz. Comunque, allo stato attuale delle cose non possiamo parlare di un'integrale fatta e finita, ma di un CD che reca al suo interno due dei quattro "Cahier", il Primo e il Secondo, di cui è composto un capolavoro che fu grandemente ammirato da Claude Debussy e Olivier Messiaen. Attendiamo quindi con ansia i prossimi due, che grazie alla meritoria opera dell'etichetta discografica Da Vinci Classics verranno pubblicati nel secondo volume di "Iberia: Songs & Dances". Già ai tempi (2016) della mia recensione di "The late Debussy": 12 Etudes & 6 Epigraphes Antiques", esordio discografico dell'allora diciannovenne artista genzanese, mi espressi in termini lusinghieri parlando di "personalità leonina", un carattere che ritroviamo senza se e senza ma nel presente piano di lavoro, visto che solo un piccolo manipolo di pianisti ha registrato Iberia integralmente, a partire da Miguel Baselga, per proseguire con Michel Block, Esteban Sánchez, Alicia de Larrocha (lei per ben 3 volte: nel 1962, 1973 e 1986), Marc-André Hamelin, Claudio Arrau, Yvonne Loriod e Guillermo González. D'altronde è l'incalzante percorso artistico di Axel a parlare da solo, sin dai suoi studi, che sono iniziati con Louis Lortie, Benedetto Lupo, Maurizio Baglini e Denis Pascal, tutti docenti e interpreti di caratura internazionale.
Artista residente presso la Queen Elisabeth Music Chapel, con Claude Debussy si è affermato come notevole interprete della musica francese. Dopo gli studi ha spiccato il volo con premiazioni in molti prestigiosi concorsi, esibizioni in numerosi concerti dentro rinomate sale, la partecipazione in qualità di solista con orchestre del calibro della Jenaer Philharmoniker e Roma tre Orchestra. Ma non voglio dilungarmi in dettagli curriculari, oggi c'è YouTube e basta guardare qualche video per rendersi conto di che pasta sia fatto questo giovane musicista. In Iberia un chiaro elemento di "Erlebnis" influenza l'operato del compositore spagnolo, ogni pregressa esperienza custodita nella sua coscienza diventa materiale vivo per la costruzione di ciascun brano. Forse quello che meglio rappresenta questa condizione è Evocación, l'evocazione appunto, creatrice di suggestioni che trovano la loro scaturigine nella memoria dell'artista e finiscono per agire sulla nostra fantasia e sentimento. Credo che gioverà per una compiuta comprensione dell'opera sapere che Albéniz attraversava un momento molto doloroso della sua esistenza; soltanto pochi mesi prima della scrittura di Iberia aveva sofferto in modo lacerante per la tragica perdita della moglie e della figlia, lui stesso non versava in buone condizioni di salute, essendo già gravemente ammalato di quella nefrite cronica che poi lo condusse alla morte. Egli sentì quindi il bisogno di andare oltre una realtà avvertita come angustiante facendo rivivere, in una specie d'ideale "amarcord", i momenti di felicità vissuti in gioventù.
Ecco che le danze, gli avvenimenti religiosi, i fantastici colori dei lontani (per lui che era in Francia) paesaggi andalusi, diventano materia non per la ricomposizione di una cartolina turistica, per quanto suggestiva possa essere, ma di un viaggio nel profondo che getta luce sulle sue stesse radici. Una forte spinta alla composizione proviene allora da precise esigenze esistenziali, che in Iberia assumono il carattere dell'urgenza. Albéniz non aveva ancora molto tempo davanti: il 1909, l'anno della morte, è lo stesso in cui il grandioso affresco fu terminato. È possibile immaginare delle forti correlazioni tra questa Suite e un'opera pittorica, per esempio una di Joaquín Sorolla, pittore impressionista che fu tra i rinnovatori dell'arte figurativa ispanica. Entrambi gli artisti furono dotati della stessa capacità di tradurre, tramite un'ampia tavolozza di colori, uno su spartito e l'altro su tela gli inimitabili umori, colori e sapori della terra andalusa. È grazie a persone come queste che l'animo sensibile (ma anche quello meno, data la loro abilità di richiamare in vita freschissime sensazioni), può calarsi interamente in affascinati atmosfere. L'Evocazione allora non fa il paio con un'illustrazione per gitanti, ma emerge come con un qualcosa di più profondo, introspettivo, alla stregua di colui che intraprende un viaggio nella memoria per raccontare le sue più intime e nostalgiche "rêverie". In questa suite per pianoforte i quattro libri sono costituiti di tre pezzi ciascuno, essa è unanimemente considerata il capolavoro di Isaac Albéniz, sicuramente la sua opera più conosciuta se escludiamo la celeberrima "Asturias" dalla Suite española Op. 47, brano improntato al tipico virtuosismo di derivazione lisztiana del compositore, che fu anche un eccellente pianista.
Un virtuosismo che d'altronde abbonda in tutti i dodici episodi di Iberia, i quali vennero eseguiti per la prima volta (e in diverse altre occasioni) dalla dotatissima pianista francese Blanche Selva. Su tutti aleggia quel "cante jondo" che celebra lo spirito di città e tradizioni andaluse, la sua intensa vocalità si soffonde in ogni meraviglioso scorcio. Va dato atto ad Axel Trolese di aver avuto l'audacia di affrontare in questo CD una tra le opere più difficili dell'intero repertorio pianistico, un vero e proprio "tour de force" che ha poi prolungato, non pago, nella pirotecnica Fantasía Bætica di Manuel de Falla. Per suonare questi pezzi occorrono mani forti e duttili, e lui le ha. Nel corso di ogni quadro la matericità del suono, che va sottolineata con decisione nei passaggi più esuberanti, svanisce regolarmente per lasciar posto a timbri rarefatti, a quella nebulosità sonora che impedisce la netta localizzazione della visione, che risulta in tali occasioni indistinta, un po' "blurry". Evocación si sviluppa in forma di meditazione impressionistica su quei ricordi della terra natia che Albéniz serbava nel cuore. Elemento caratterizzante è, come in tutti i brani, la danza. Il fandango riporta al sud della Spagna, mentre la jota conduce al nord, forme musicali che diventano tessuto connettivo unificatore del paese. Il brano esordisce con una sinuosa melodia in "Allegretto expressivo" che Axel Trolese impreziosisce con sottili inflessioni agogiche e dolci trasalimenti, riesce a farlo con un'infinita dolcezza e sensibilità di tocco. Asseconda la volontà di Albéniz di fondere in un solo "humus" i due costituenti della sensibilità impressionistica e degli accenti tipicamente iberici. Una pausa breve come un sospiro (Adagio) si apre con un accordo arpeggiato.
Le indicazioni dinamiche esprimono la volontà dell'autore di raggiungere livelli sonori anche estremamente piccoli ma conservativi di un consistente corpo, così dal "ppp ma sonoro" si passa al "pppp" per poi riprendere il "tempo primo". Quest'incantevole brano si chiude in un'atmosfera onirica, "meno mosso - souple, très doux et lointain". El puerto è invece un raggiante zapateado ispirato alla città portuale di Cadice. L'Allegro commodo in tempo di 6/8 è costellato di accenti rudi (très marqué et très brusque) che vengono sottolineati con vivace reattività. Un brano pieno di vita, cui non mancano fugaci passaggi di dolcezza in un continuo alternarsi tra due polarità. Il nostro pianista caratterizza, bilanciando con sapienza il vivace ritmo punteggiato suggestivo delle calzature battenti dei ballerini e frangenti impressionistici. Un punteggiato che può diventare anche "dolcissimo" in una cangiante varietà. In realtà, è la cellula ritmico/melodica principale a essere continuamente sottoposta a mutazioni espressive. Un episodio intermedio più elaborato porta all'apoteosi del "très joyeusement", mentre la chiusa è affidata alla più tenera dolcezza. Come sovente avviene, il brano si dissolve in lunghi accordi coronati, quasi in uno stato di sospensione. Fête-dieu à Seville è un brano piuttosto complesso, descrittivo della processione che avviene nella festa del Corpus Domini a Siviglia. Il simulacro del Corpo di Cristo viene portato in giro per le vie della città con un fercolo, mentre le bande musicali lo accompagnano.
Deve aver sudato le classiche sette camicie Axel nel suonarlo, non tanto per la sua notevole ampiezza (è il brano più lungo di Iberia dopo Almería) ma per le difficoltà tecniche riservate da una scrittura quanto mai complessa, dove la partitura in certi punti è scritta su tre pentagrammi e si sviluppa in larghe battute. Dopo un avvio sornione, cadenzato con precisione da lui, si perviene a un episodio virtuosistico di schietta marca lisztiana, "ff bruyant - sempre staccato", dove le due mani si alternano in veloci figurazioni. Ma è solo l'inizio. L'episodio lirico "a tempo - un peu plus calme" spezza il turbine di note dando momentanea tregua all'esecutore, si snoda una stupenda melodia con l'accompagnamento di note singole alternate a bicordi e organizzate in quartine di semicrome, un sottofondo che proseguirà per tutto l'episodio in una scrittura a tre pentagrammi. Protagonista in questo brano è il cante jondo andaluso, cui facevo cenno in precedenza, accompagnato delle chitarre flamenche. La marcia processionale si allontana sempre più, sfumando il proprio suono nel progressivo allontanarsi. Se fossi un ingegnere del suono parlerei di effetto "Fade Out". Ci possono essere diversi modi di declinare il virtuosismo e qui li troviamo veramente tutti, non solo le note suonate ad alta velocità. Anche calibrare la dinamica sul lungo termine richiede un impegno tecnico non da poco, anche questa può essere considerata una forma di virtuosismo, nella quale Axel se la cava egregiamente, come si dimostra bravissimo nel soppesare i piani sonori differenziando il livello tra le due mani. Solo se si possiedono queste "armi" si può rendere viva una musica fortemente mirata a ricreare delle immagini esteriori e insieme interiori.
Dopo un turbinoso Vivo in 3/8 "ffff", una sorta di prorompente tarantella, il brano si conclude con un Andante in 4/4. Accordi di grande complessità sostengono una melodia molto semplice e danno l'impressione del graduale allontanarsi, questa volta definitivo, della processione. Se a qualcuno potrà sembrare peregrina la scelta d'intercalare l'ascolto del Primo e Secondo Libro di Iberia con le Cançó i dansa di Federico Mompou, come l'interruzione di un discorso iniziato, per me trova una sua logica nel dimostrare che in quest'album è assente quella "monotonia" che s'ingenera dalla ripetizione di un medesimo "mood" musicale. Qui assistiamo piuttosto al manifestarsi di uno stesso animo ispanico, diramato però in forme e accenti che possono essere anche molto diversi tra loro. Particolarmente nota è la N. 6 Cantabile espressivo - Ritmado, (ma anche la N. 1 lo è) suonata da molti pianisti e talvolta come bis a fine concerto anche da Arturo Benedetti Michelangeli. L'opera è una raccolta di quindici brani scritti tra il 1918 e il 1972 per il pianoforte, tranne il brano N. 13, che è per chitarra, e il N. 15 che fu pensato per l'organo. Ogni numero segue una medesima formula: a un lento cançó introduttivo segue una più animata dansa. I brani sono tutti pressoché basati su melodie popolari catalane esistenti, ma alcuni sono motivi originali. Non composti per essere un'opera unica, i vari numeri di Cançó i dansa attraversano un periodo molto lungo, essendo stati composti in un arco di ben cinquantacinque anni. Con Rondeña, brano che apre il Secondo Libro, riprende il discorso interrotto su Iberia.
Evocativo della città andalusa di Ronda, il suo nome coincide con un particolare tipo di flamenco originario della località malagueña. Gli storici della musica affermano che questa danza è nata prima del flamenco stesso, allo stesso modo delle diverse forme musicali che da questo derivano. Nasce in ogni caso dal fandango malagueño. C'é in realtà una "querelle" sul suo nome, derivando secondo gli esperti dalla cittadina di Ronda e non dal giro della ronda notturna, come ritenuto da alcuni. Fatto sta che questa danza ebbe un'enorme espansione in tutta l'Andalusia, una delle diciassette comunità autonome che costituiscono la Spagna. Con grande morbidezza Trolese affronta la melodia, mossa e ingraziosita dall'alternanza dei tempi 6/8 e 3/4, contraddistinta da un motivo discendente che nella successiva misura si conclude amabilmente con tre brevi accordi di crome. Una leggiadria che il nostro interprete riesce a venare di una languida malinconia. Alcuni riferiscono questo quadro all'immagine di una festa di matrimonio, con i ballerini che battono le mani (gli accordi della seconda misura). Il carattere del brano si diversifica poco più avanti, assumendo accenti meno solari e più tormentati. Di straordinario effetto è l'improvviso viraggio verso tinte debussyane a battuta 29. In tutta questa suite, per la verità, Albéniz compie una sorta di straordinario "innesto" tra un impressionismo di marca francese e schiette istanze ispaniche. L'episodio centrale "poco meno mosso - p mais sonore" è stupendamente lirico, quasi ipnotico, di una languidezza tutta speciale, condito con schizzi di colore spagnolo negli abbellimenti di terzine.
Seducente trovo il contrasto tra il "gracieux" e il "sec et precìs" che segue nella ripresa del tema a battura 69. La coda che conclude il brano ha un carattere spiritoso che rasenta l'ironico ("staccatissimo giocoso e senza pédale" in partitura). In certi punti la scrittura diventa assai intricata, tanto da rendere necessario l'utilizzo di tre pentagrammi. In Almería si viene totalmente inondati dai ritmi e dai profumi della Spagna, il racconto in musica di una giornata trascorsa in un vivace porto di mare. Anche qui l'esecutore si trova davanti a difficoltà tecniche di ogni sorta, davvero difficili a superarsi, non fosse altro che per quegli improvvisi scatti di reni che occorrono per passare da momenti di estrema rarefazione ad altri di febbrile eccitazione. Le reminiscenze continuano a guidare la felice mano dell'autore, nell'indicazione "léger et vague" possiamo trovare un'ottima sintesi della sua capacità di trasportarci in atmosfere indefinite, sognanti, in cui si fa fatica a distinguere i contorni delle immagini. Si tratta di un'alternanza che si regge sul forte sapore della terra andalusa, sottolineato da ritmi e colori ben marcati, cui fanno da contrasto zone di vaporosa rarefazione, come se la mente, colta dalla forza dei ricordi, fosse completamente sopraffatta da essi. Axel Trolese si cala in questi contrastanti frangenti con tutto se stesso, è convinto di quello che sta facendo e per questo riesce a persuadere anche noi. Nell'episodio centrale del "poco meno mosso" si crea una sorta d'ipnosi, dove la mano sinistra disegna un ritmo cullante in accompagnamento alla magnifica melodia affidata alla mano destra, dopo una serie di accordi preparativi.
Un modo singolarmente delicato di porgere una musica che deve avere il tempo di penetrare nel nostro animo, senza frettolosità. Ritornano le terzine spagnoleggianti e il nostro pianista sfodera un formidabile senso del rubato, coadiuvato dalle frequenti note tenute, quasi a voler sottolineare l'intensità dell'espressione, impedire che le emozioni scivolino via troppo presto. Reminiscenze infantili affiorano dalla misura 131. Il nostro viaggio continua fermandosi a Triana, variopinto quartiere gitano di Siviglia sulla riva occidentale del fiume Guadalquivir. Sotto i nostri occhi prende forma un dipinto impressionista dalle tinte icastiche, ci porta nel bel mezzo di una festa di flamenco, con i suoni delle chitarre, i clic delle nacchere, gli incisivi battiti di mani e piedi. Sentiamo, elettrizzati da una musica quanto mai viva, un sevillana e un paso doble, siamo presi e trasportati di peso in una "Feria de Abril". Trolese esibisce un pianismo leggero, arioso e ammiccante nell'episodio "bien chanté - très doux et nonchalant" (da battuta 51); presenti anche in Triana delle belle iniezioni di virtuosismo, come per esempio le veloci volate di sestine di semicrome dalla misura 67, con la difficoltà aggiuntiva di essere suonate in "ppp" (tranquillement), vale a dire con una pressione che mette a rischio l'esecutore di produrre qualche "ghost note". Un pezzo mirabolante chiude questa straordinaria seconda prova discografica del pianista genzanese. Parliamo della Fantasia Bætica di Manuel De Falla, altro brano di grande difficoltà tecnica. Ritroviamo in questa ancora un richiamo all'Andalusia, visto che il termine "bætico" viene dal latino e designa appunto la regione spagnola dell'Andalusia.
È un lavoro che fu commissionato dal grande pianista Arthur Rubinstein, egli però non gradì molto il brano rispetto ai precedenti di De Falla, tanto che, dopo averne dato la prima a New York nel 1920, in seguito non la suonò più. Il solo scorrere la partitura fa tremare le vene e i polsi, infarcita com'è di rapidissimi gruppi irregolari, accordi alternati alle due mani da suonare in velocità, fulminei glissandi e quant'altro. Parrebbe un brano costruito "ad hoc" per far platealmente risaltare le qualità virtuosistiche dell'interprete, ma così non è, essendo intriso di un'intensa e a momenti tragica musicalità, quella "austerità" che non andò troppo a genio a Rubinstein, il quale probabilmente si aspettava un qualcosa di meno profondo e più folcloristico. Ma in questa è il "cante jondo" a coinvolgere completamente l'ascoltatore, rapito da tanto fuoco interiore, un canto che viene riccamente modulato in un caleidoscopio di frangenti espressivi. È un colore che sembra virare, secondo autorevoli musicologi, da uno sfarzo esuberante a una maggior severità interiore, all'affiorare, secondo il compositore e musicologo Alexis Roland-Manuel, di "elementi del canto liturgico, della musica araba e dei ràgas indù misteriosamente importati dai gitani". Il pianista laziale affronta con valore le tre parti di cui è composta questa Fantasia, gestisce con singolare acume la legatura tra le parti assorte e quelle più turbinose, dimostrando inoltre grande padronanza tecnica dello strumento, senza la quale brani di questo tipo non potrebbero essere eseguiti.
Una nota: l'Intermezzo - Andantino (poco rubato) è una gemma che lui riesce a incastonare con squisita eleganza tra burrascosi elementi, segno di grande intelligenza e comprensione a tutto tondo della volontà dell'autore. Isaac Albeniz disse della sua Iberia: "Qui ci sono alcune cose che non sono completamente prive di valore. La musica è un po' infantile, semplice, vivace; ma alla fine, le persone, i nostri spagnoli, sono qualcosa di tutto questo. Credo che la gente abbia ragione quando continua a essere commossa da Córdoba, Maiorca, dalla Copla dei Sevillanas, dalla Serenata e da Granada. In tutti ora noto che c'è meno scienza musicale, meno grande idea, ma più colore, luce solare, sapore di olive. È musica della giovinezza, con i suoi piccoli peccati e assurdità che quasi fanno notare l'affettazione sentimentale. Mi sembrano come le incisioni dell'Alhambra, quegli arabeschi particolari che non dicono nulla con i loro giri e le loro forme, ma che sono come l'aria, come il sole, come i merli o come gli usignoli dei suoi giardini. Valgono più di tutto il resto della Spagna moresca, che, anche se può non piacerci, è la vera Spagna". In "Isaac Albéniz - Iberia, Book I & II - Mompou • De Falla" Axel Trolese assume le vesti di un pittore che, potendo contare su una formidabile tavolozza, è in grado di restituirci con singolare vividezza sei delle dodici raffigurazioni che costituiscono la Suite Iberia. La sua pennellata sa essere carica di colore, o, a seconda delle esigenze espressive, appena accennata. Sul pianoforte sa dominare come pochi una materia musicale che solo superficialmente si potrebbe assimilare a uno stile unico, consegnandoci Albéniz dalle mani di Debussy.
Nelle undici tracce del CD compie l'operazione per lui del tutto naturale di conciliare un'indiscutibile attitudine, e non solo tecnica, per la musica francese novecentesca, già ampiamente dimostrata con il suo primo disco "The late Debussy", e la sua viscerale passione per la Spagna. Sono elementi che risultano mirabilmente fusi in questa seconda prova discografica e conferiscono a essa un notevole valore. La stratificazione mnemonica creata da concerti e registrazioni fa risaltare come Axel Trolese, ancorché molto giovane, in questi ultimi anni abbia notevolmente affinato le sue capacità di approfondimento stilistico, passando dal pianismo un po' ispido dei primissimi anni a un'ammirevole raffinatezza. Se in pagine come Iberia e la Fantasia Bætica siamo di fronte a una sorta di ipervirtuosismo, dove occorre avere lo scatto del centometrista, scopriamo negli episodi più lirici ed evocativi una particolare forma di morbidezza, una leggerezza di tocco squisitamente francese che fa venir voglia di ascoltare dalle sue mani Le Rossignol-en-Amour oppure Les Baricades Mistérieuses del sommo François Couperin. E non è detto che un domani Axel non ci pensi... La promessa di un tempo è oggi diventata una splendida realtà. È lecito a questo punto aspettarsi per il futuro nuove e altrettanto convincenti prove da lui.
Chapeau Axel!
Alfredo Di Pietro
Giugno 2021