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venerdì 20 dicembre 2024 ..:: APF 2018 - Euterpe - Terza Serata ::..   Login
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 AMIATA PIANO FESTIVAL 2018 - EUTERPE - 28/07/2018 Riduci

EUTERPE
MUSICA SULL'ACQUA

 



Georg Philipp Telemann (1681 - 1767)
Wassermusik in Do maggiore - Hamburger Ebb' und Fluth Ouverture-Suite TWV 55:c3
     1. Ouverture: Grave - Allegro
     2. Sarabande: Die schlafende Thetis
     3. Bourrée: Die erwachende Thetis
     4. Loure: Der verliebte Neptunus
     5. Gavotte: Spielende Najaden
     6. Harlequinade: Der schertzende Tritonus
     7. Tempête: Der stürmende Aeolus
     8. Menuett: Der angenehme Zephir
     9. Gigue: Ebbe und Fluth
     10. Canarie: Die lustigen Boots Leute

Concerto in mi minore per flauto diritto, traversiere, archi e basso continuo TWV 52:e1
     1. Largo
     2. Allegro
     3. Largo
     4. Presto

Da Tafelmusik, Ouverture-Suite in mi minore per due flauti, archi e basso continuo TWV 55:e1
     1. Ouverture: Lentement - Vite
     2. Rejouissance
     3. Rondeau
     4. Loure
     5. Passepied
     6. Air un peu vivement
     7. Gigue
     8. Conclusion

Jean-Philippe Rameau - Da "Les Indes galantes": Les Sauvages
Jean-Baptiste Lully - Da "Le Bourgeois gentilhomme": Marche pour la cérémonie des Turcs

Il Rossignolo (con strumenti originali)

Flauto diritto I e oboe I: Martino Noferi
Oboe II: Fabio D'Onofrio
Traversiere e flauto diritto II: Marica Testi
Violino I: Florian Deuter
Violino II: Mónica Waisman
Viola: Agostino Mattioni
Violoncello: Marco Frezzato
Contrabbasso: Riccardo Coelati Rama
Clavicembalo e direzione: Ottaviano Tenerani

 



Metti una sera a cena con Telemann e gli Emerson Lake e Palmer... No, non sono vittima di un colpo di calore, piuttosto bersaglio dei continui assalti di nostalgia che mi prendono per la giacchetta riportandomi indietro nel tempo. In giovane età, quando passavo i pomeriggi ad ascoltare musica sul mio impianto. Nella mia discoteca trovava posto davvero di tutto, la classica, il progressive, il jazz e anche le sperimentazioni alle tastiere elettroniche di Walter (Wendy) Carlos e Bob James. Qualcosa con gli anni è cambiato, certi rapporti conflittuali che nascevano dal pot-pourri di generi ascoltato si sono man mano ricomposti in un unico credo: affidare il proprio nutrimento spirituale alla musica di qualità, quella senza tempo e compartimenti stagni, che tra le sue caratteristiche ha quella di una sempreverde spontaneità. E un po' contrastato fu anche il mio approccio con due grandissimi della storia della musica, Georg Philipp Telemann e Johann Sebastian Bach, mentre non lo fu affatto tra loro, visto che si stimavano e furono anche buoni amici. Telemann fu amico pure di Georg Friedrich Händel, che teneva in gran conto la sua straordinaria abilità compositiva: "era capace di scrivere un mottetto a otto voci più velocemente di una comune lettera", diceva di lui. L'osannato Bach, il sommo "Kantor", forse il più grande musicista mai apparso sulla faccia della terra, mi pareva strano piacermi meno di Telemann, al suo confronto dotato, per la mia sensibilità, di maggior levità, eleganza. Ogni cosa che ascoltavo di lui suonava alle mie orecchie graziosa e accattivante.

 



Solo molti anni più tardi la mia visione si è modificata. Ho rivalutato decisamente Bach pur non perdendo un milligrammo dell'ammirazione che ho sempre nutrito per Telemann. A pensarci bene, ci sono almeno due punti in comune tra il grande compositore tedesco e L'Amiata Piano Festival: la curiosità per l'inedito, che conduce alla continua ricerca di nuove esperienze artistiche, e la capacità di rivestire l'evento sonoro di una perpetua modernità, in realtà già insita in quella musica di qualità cui accennavo prima. Praticamente contemporaneo di Bach essendo nato quattro anni prima, il compositore di Magdeburgo fu prolificissimo (il suo catalogo comprende più di cinquemila titoli), longevo (morì a 86 anni) e attraversò nella sua lunghissima parabola creativa i periodi del Barocco, dello Stile galante e dell'Empfindsamer Stil, arrivando fino alle soglie del Classicismo. Non fu certamente un musicista che amava sedersi sugli allori, ma con grande vivacità intellettuale praticò stili diversi, mostrando sino a tarda età una straordinaria capacità di rinnovamento. Nel panorama dei compositori europei fu una vera celebrità, a suo tempo molto più del "Kantor". Nella serata del 28 luglio l'ensemble "Il Rossignolo", stimato dalla critica internazionale come una delle eccellenze italiane nel campo della musica antica, ha eseguito due tra le opere di punta della vastissima produzione telemanniana, la Wassermusik e una selezione di brani da Tafelmusik, inframezzate dal Concerto in mi minore TWV 52:e1.

 



Quest'ultimo era previsto per un insieme strumentale all'epoca non molto frequente, costituito dal flauto diritto, traversiere, archi e basso continuo. Prima opera in programma è la Wassermusik (Musica sull'acqua) in do maggiore, scritta nel 1725, quando l'autore occupava la carica di Kantor ad Amburgo. Si tratta di una suite per orchestra, dove a una pomposa Ouverture iniziale seguono i singoli movimenti di danza, molti di origine francese, intitolati a dei e divinità del mare. Nella Sarabanda, danza in tempo ternario dall'andamento lento, c'è la dea Teti che dorme. In una Bourrée, antica danza francese in tempo binario dal carattere allegro e saltellante, assistiamo al suo risveglio. E francese è pure la Loure di Nettuno innamorato, danza probabilmente nata in Normandia che prende il nome da uno strumento musicale somigliante a una musette de cour. Alla delicata melanconia della Loure segue una gavotta, danza in tempo binario, dedicata alle Naiadi, le ninfe nuotatrici. Gli scherzi di Tritone sono affidati alla "verve" dell'Arlecchinata, mentre gli impeti di Eolo, il re dei venti, vedono la loro rappresentazione in un magistrale andamento che parte sornione, agitandosi progressivamente con una sapiente gestione del ritmo che ricorda un precipitato. Mansueto è Zefiro, personificazione del vento che soffia da ponente, così come il leggiadro Minuetto che lo raffigura. Una movimentata Giga, veloce danza in tempo ternario, simula l'alternarsi dell'alta e della bassa marea.

 



Dimostrando una sopraffina arte "pittorica", Telemann descrive con un serpeggiante snodarsi di terzine le due fasi, nel diminuendo la bassa marea, nel crescendo la alta, accompagnate dalle rispettive dinamiche di piano e forte. Trionfante è la conclusione, incentrata sul ritmo guizzante di una Canarie, danza di origine spagnola dal ritmo ternario e dall'andamento veloce. Le suggestioni spagnoleggianti si riaffacciano anche nel brano che segue, il Concerto in mi minore per flauto diritto, traversiere, archi e basso continuo TWV 52:e1, precisamente nell'intrigante Presto finale (l'estrema piacevolezza è un elemento sempre presente nella produzione di Telemann). È un movimento dal rimarchevole slancio vitalistico, in forma di danza iberica, dal carattere virtuosistico, ricca di ritmi vivaci e colori accesi. Terzo e ultimo episodio nell'impaginato di sala è stato una selezione di brani dalla Tafelmusik (musica da tavolo), genere praticato a partire dalla metà del XVI secolo in occasione di feste e banchetti, un materiale sonoro che, in buona sostanza, accompagnava i pasti. Questa però non era la sua sola accezione in quanto spesso il termine era usato anche come titolo per raccolte di musica. Si renderà così genere autonomo, di fatto scollegato dalla tavola, sovente con il significato di zibaldone di cose belle che si mettono sul tavolo da offrire ai presenti. G.F. Telemann concepì sotto il nome di Tafelmusik una triplice serie di opere. Alla testa di ognuna c'era un'Overture in forma di Suite, seguita da un quartetto, concerto, trio e sonata, mentre alla fine c'era immancabilmente una "Conclusion".

 



Come esistono le "specializzazioni" nel campo di chi fa musica, così possono esserci delle preferenze in chi l'ascolta. Non è tuttavia necessario essere degli esperti conoscitori di barocco per entrare in sintonia con Il Rossignolo, gruppo strumentale "a geometria variabile" dedicato allo studio e all'esecuzione di musica antica su strumenti storici. Il fascino che emana il suono degli strumenti antichi, il loro potere evocativo sono in grado di trasportare all'istante chiunque tra le più pure delizie. La musica è fatta di suoni ma anche di gesti, come le movenze danzanti dei nove musicisti che si sono esibiti nella serata del 28 luglio. Non si può comprendere sino in fondo la gioia del fare musica senza osservare sul palco artisti come questi, musica e portamento diventano un tutt'uno nell'espressione di un mondo ideale, di grazia, eleganza, armonia ma anche di forza. Il Rossignolo dimostra come sia possibile esprimere l'animo umano nella sua interezza con una teatralità misurata, mai sfrenata o eccessiva. Rendono piena giustizia alla musica di Telemann nell'aprirsi a eterei spiragli melodici, nelle loro corde c'è quella nobile leggerezza, la capacità di cogliere la profondità nella superficie in un'umanissima teatralità. Tutto questo, però, non si può conseguire se non si è prima compreso e conquistato il valore del saper ascoltarsi reciprocamente, il rispetto assoluto del suono e della presenza dell'altro. In un ensemble condizione necessaria, ma non sufficiente, è il possesso di un egregio livello tecnico-esecutivo individuale, ma quello che veramente conta è quell'amalgama che porta a suonare come un sol uomo, pur nel riguardoso accoglimento di ogni singola personalità.

 



Ed è questo affiatamento, tra le altre cose, che rende questo insieme così speciale. Concetti e impressioni che meglio verranno messi a punto nella lunga intervista che il maestro Ottaviano Tenerani ha avuto la bontà di concedermi. Alla fine del concerto rimane dentro di noi un supremo senso di equilibrio, una gaia eccitazione provocata dalla gioia pulviscolare dei ritmi ma... anche la malinconia sublime espressa da diversi tempi lenti. È una contrizione di nobilissimo conio, sempre composta e proiettata in una visione superiore. Ma cosa possiamo dire noi, uomini del XXI secolo, della "querelle" Telemann-Bach? Che il primo, da protagonista incontrastato della scena musicale tedesca nelle prime cinque decadi del Settecento, ricevette in seguito un ingiusto ridimensionamento, che a volte arrivò sino al disprezzo, scatenato dal tardivo riconoscimento dell'immensità di Bach. Un dato storico che ha quasi il sapore di una vendetta "a posteriori" anche se, ben vedere, entrambi subirono un'ingiustizia e forse quella più amara fu riservata a Bach, che in vita rimase in ombra e incompreso. La storia però ci riporta un "piccolo" particolare, che riconcilia con giustizia e verità: Telemann e Bach furono profondamente amici, stimandosi reciprocamente nel riconoscimento della loro grandezza. E se non crediamo a Bach possiamo rivolgerci a un altro grandissimo, G.F. Händel, anch'egli amico ed estimatore di Telemann. Per quanto riguarda il gruppo strumentale "Il Rossignolo", sono certo che se il compositore magdeburghese fosse ancora in vita, sarebbe salito sul palco del Forum Bertarelli portandogli in dono un grande mazzo di fiori e forse anche qualche oggetto dimenticato nel tempo da disporre su un "Tafel".

 

 

 

 

INTERVISTA AL MAESTRO OTTAVIANO TENERANI

 




Alfredo Di Pietro: Maestro Tenerani, la prima domanda è quasi di rito: come, quando e dove nasce l'ensemble Il Rossignolo?

Ottaviano Tenerani: Il Rossignolo è nato praticamente sui banchi di scuola. Io, Martino Noferi e Marica Testi (i flautisti del gruppo) abbiamo tutti studiato al Conservatorio di Firenze. Martino aveva frequentato in precedenza la scuola di musica di Fiesole e in seguito è entrato in conservatorio, dove ha conseguito poi il diploma nella classe di flauto dolce. Ci conoscemmo quindi in quegli anni. Io avevo appena terminato gli studi di pianoforte, iniziando a studiare direzione d'orchestra e clavicembalo, Marica stava ultimando quelli di flauto traverso. Parliamo di strumenti moderni. Martino era quello più avvantaggiato, venendo direttamente dal flauto dolce, perciò già introdotto nel repertorio barocco. Come si fa tra compagni di scuola, abbiamo iniziato a suonare insieme, fondendo all'inizio l'elemento musicale con quello dell'amicizia. Nel 2018 Il Rossignolo ha compiuto vent'anni di attività, esattamente quanti ne sono passati dal nostro primo disco, ma in realtà noi tre suoniamo insieme da ben prima, almeno sette, otto anni dalla formazione ufficiale del gruppo. Sono praticamente trent'anni che ci conosciamo, legati da questa lunghissima amicizia che pervade tutto il resto del gruppo ed è caratterizzata anche da scelte molto precise. Siamo come una famiglia, dove arte e vita s'intrecciano. Ci sono tanti gruppi di musica antica, ormai c'è una forte specializzazione in questo campo. Esistono anche diversi stili di esecuzione, che per'altro sono tutti giustificati e hanno una base storicamente informata, corretta. Al di là del trio dei fondatori, anche gli altri musicisti che lavorano con noi sono persone conosciute da tempo in quanto hanno il nostro stesso tipo di approccio. Nelle varie correnti di pensiero si preferisce ovviamente scegliere le persone che più rispondono alla propria idea estetica. Oggi la situazione per un musicista è complicata, c'è sempre meno tempo per preparare i concerti e quindi si cerca di suonare con elementi di cui si condividono le vedute. Se c'è questa corrispondenza, un linguaggio di base comune, c'è bisogno di meno tempo per le prove.

ADP: A chi assiste ai vostri concerti certamente non sfugge la grande gioia con cui suonate. È disegnata sui vostri volti, espressa dalle vostre movenze. Per quale ragione, secondo lei, una musica così "datata" è ancora in grado di suscitare nell'ascoltatore emozioni di tale freschezza, generate da un'onda d'incontenibile vitalità ritmica e melodica?

OT: Questa è una bella domanda, che dividerei in due. La gioia fa parte di chi suona, a prescindere dal repertorio eseguito. Quando ero bambino mi dicevano sempre: "se non hai voglia di suonare uno strumento, non è che ti possono legare a una sedia". Come in tutti i lavori, immagino che anche nel musicista ci sia la sensazione di essere una persona fortunata poiché ha fatto una cosa che ha scelto, fortemente voluta e frutto di tanti sacrifici. Non è che chi svolge un'occupazione diversa ha dovuto sostenere meno sacrifici, però è vero che la musica, avendo io seguito anche altri tipi di studio, dà una soddisfazione particolare. In essa si mescolano tante cose. Quando uno sostiene un esame di storia della musica, è fondamentale che capisca i concetti, tutto quello che si nasconde nelle pieghe della materia. Tuttavia quando si suona uno strumento è inevitabile che, oltre a questo, ci sia anche un notevole dispendio di energie fisiche. Pensiamo al flautista o al violinista che studia sei ore al giorno. Se si fa una radiografia a un flautista si trova la colonna vertebrale "storta", deformata dalla postura fisica cui è obbligato nel suonare, cioè con una spalla più alta e l'altra più bassa. Quando vedo un atleta che corre i cento metri in dieci secondi, capisco che per farlo bisogna correre forte, però se provo io non ne sono capace. Questo per dire che non basta capire come si fa una cosa, ma bisogna anche metterla in pratica contando su un fisico ben allenato. Ecco che suonare uno strumento, in generale, si conforma con un'attività che mescola la comprensione di quello che stai facendo con un fattore prettamente atletico. Quante persone a un certo punto devono smettere di suonare perché fanno fatica, non ce la fanno proprio fisicamente? È chiaro che studiare uno strumento è frutto di una scelta, di una ferma volontà a monte, per cui normalmente una persona è molto felice di farlo. Una parte di gioia deriva sicuramente da questo. Per quanto riguarda l'approccio a un certo tipo di repertorio, ormai è sensazione condivisa tra tanti musicisti, e anche da tanta parte degli ascoltatori, che suonandolo secondo certi criteri e con determinati strumenti questo sia più facile e godibile.

ADP: È proprio a questo che volevo arrivare maestro. La gioia che ho visto nei vostri occhi è però diversa da quella che c'è in chi interpreta, per esempio, Stockhausen, Schönberg piuttosto che un autore romantico. Mi sembrate attraversati, insomma, da un particolare tipo di letizia.

OT: Si, può darsi. C'è un periodo storico in cui la musica comincia a diventare un po' più tortuosa e quindi affrontare un certo repertorio che arriva sino al primo trentennio dell'800, con alle spalle determinate conoscenze e strumenti, sicuramente dà una sensazione di compiutezza in chi la suona e, in base ai riscontri che riceviamo dal pubblico, credo anche in chi l'ascolta. Questo aspetto moltiplica la gioia in entrambe le categorie di persone. Quando insegno in conservatorio, noto che ci sono degli studenti ancora fortemente stupiti da quanto lavoro ci possa essere dietro l'esecuzione di un brano, da quanta profondità c'è nello studio e la quantità di dati che realmente vanno conosciuti per poter interpretare un'opera di qualsiasi periodo in maniera consapevole. Questo stupore produce frutti diversi: c'è la persona che rimane scoraggiata, altri possono essere eccitati, come se scoprissero un nuovo mondo, nuove dimensioni che magari sino a quel momento non avevano considerato. La mole di lavoro da sostenere può essere quindi fonte di entusiasmo o di scoramento. Non esiste una situazione unificata in tal senso, si nota tuttavia un atteggiamento prevalente di grande fervore nei confronti della musica eseguita con certi criteri. In parte c'entrano anche gli strumenti che si adoperano, poiché a un certo punto ci si accorge che affrontare un determinato repertorio sullo strumento per cui è stato pensato, indubbiamente rende tutto più semplice e comprensibile. Questa è opinione abbastanza diffusa, la faccio mia senza la pretesa di aver inventato niente.

ADP: Il Rossignolo è un gruppo definito a "geometria variabile", secondo il repertorio affrontato. Quali sono le principali difficoltà cui si va incontro nell'amalgamare la resa di un complesso strumentale come il vostro, nel cercare il giusto punto d'equilibrio e coesione?

OT: Intende fra gli strumentisti coinvolti?

ADP: Si.

OT: In parte mi ricollego a quello che dicevo prima. Oggi come oggi quasi tutti i complessi di musica antica sono a geometria variabile, nel senso che una volta si è chiamati a interpretare una sonata di Bach, la volta dopo un oratorio di Händel, nel primo si è in quattro e nel secondo in trenta. È chiaro che i problemi e gli approcci cambiano. Il nostro gruppo di base è formato dai tre fondatori, che hanno la speranza di aver maturato una certa esperienza. Nell'ambito del nostro percorso riflettiamo costantemente sulle strategie interpretative, se posso usare questo termine, poiché in esse non c'è mai un punto d'arrivo. Tutti quelli che fanno questo lavoro, tendenzialmente tengono a mantenersi costantemente aggiornati e informati in quanto ogni giorno salta fuori qualcosa di nuovo. È un fattore cui prestare attenzione e che magari ti fa cambiare punto di vista su qualcosa che sino a quel momento era considerato diversamente. Detto questo, il nostro organico spesso cambia, anche in maniera drastica, da un concerto all'altro. Siamo arrivati alla conclusione, siccome ci sono tanti gruppi e tante scuole di musica antica in cui ognuna propone soluzioni interpretative particolari, di formarci una nostra peculiare identità. La domanda che spesso ci viene fatta è: "ma voi riconoscete una differenza nel modo di suonare degli italiani piuttosto che dei francesi o dei tedeschi?" Certamente è la nostra risposta, perché esisteva già a quel tempo. Sin dal periodo di Telemann o Vivaldi i tedeschi si lamentavano degli italiani, che a loro volta di lamentavano dei francesi e così via. Lo stesso repertorio già allora veniva suonato diversamente a seconda della scuola di provenienza. I tedeschi accusavano i francesi di non saper suonare la musica francese, ma non ricevevano risposta a causa del disprezzo che questi ultimi nutrivano per loro. Dalle cronache dell'epoca appare evidente che sin da quel tempo c'erano più modi di eseguire il medesimo repertorio. Come si fa quindi a dire che un modo è più filologico di un altro? Il primo passo da fare è allora quello di essere informati su come eseguire una certa opera di un determinato periodo, per non incorrere in qualcosa di palesemente antistorico o scorretto. Una volta individuati i paletti entro cui ci si può muovere, per'altro abbastanza ampi, il nostro ensemble ha deciso di collaborare con musicisti che noi sapevamo già avere la nostra stessa linea estetica. Nel momento in cui l'organico si allarga o si restringe, si cerca per quanto possibile di coinvolgere non soltanto elementi con c'è un rapporto di amicizia e fiducia, che mi sembra comunque il requisito fondamentale. Con i nomi che ha visto l'altra sera, quando si va via, nel momento in cui ognuno riparte per tornare in Germania piuttosto che a Napoli, si fa fatica a salutarsi perché ci dispiace lasciarci. È un problema di amicizia, di stare volentieri con altre persone. Ognuno di noi ha esperienze anche con altri gruppi. Quando tu conosci un individuo, con cui ti metti a suonare, e poi intuisci immediatamente che non devi dirgli quasi niente perché il tuo pensiero coincide con il suo, vuol dire che quel musicista una volta calato nella tua realtà funzionerà bene. Si verifica quell'identità di vedute che, una volta limati i particolari, porta naturalmente a integrarsi. Ci sono invece scuole, tutte con una loro ragione, che sono fondamentalmente diverse proprio a partire dall'emissione del suono. Succede per gli strumenti ad arco, per esempio. Può avvenire allora il caso di due persone che prese singolarmente suonano benissimo, hanno una tecnica formidabile, ma essendo dotate di uno stile completamente diverso di approccio al suono, non risultino intonate una con l'altra. Mi limito a questo particolare per far capire quante possano essere le differenze se prendiamo in considerazione più parametri. Pensi al fatto di appoggiare semplicemente un archetto su una corda e produrre un suono. Quando si vanno a mettere insieme musicisti diversi, pur essendo di per sé fenomenali, si può andare incontro a un risultato complessivo deludente. Si tratta di un problema che si riscontra piuttosto frequentemente in tanti gruppi e cui bisogna prestare molta attenzione. Ci può essere un concerto che capita all'ultimo momento e non si fa in tempo a trovare le persone che vorresti, questa è una criticità che è sempre dietro l'angolo. Per questo il gruppo va costruito con estrema cura e attenzione, sia dal punto di vista umano che da quello del pensiero musicale. L'insieme che abbiamo presentato qui all'Amiata Piano Festival è una delle nostre formazioni tipo. Abbiamo appena finito di registrare tutte le sonate per strumento solo di Händel ed eravamo io, Marica, Martino e Florian Deuter, il primo violino. Tendenzialmente si cerca quindi di avere sempre le stesse persone perché è con quelle che si costruisce un suono, per quanto è possibile. Quello della disomogeneità è comunque un rischio non infrequente, oggi il mercato dei concerti è molto veloce, i musicisti sono impegnati in tante cose. Le faccio un altro esempio: le audizioni, che vengono spesso fatte in tutto l'ambito musicale, noi da qualche anno le abbiamo abbandonate. Capita che arriva uno strumentista, bravissimo, che suona meravigliosamente bene, poi lo cali nel gruppo e per qualche motivo non funziona. Tanto vale allora chiamarlo a suonare direttamente perché così ti rendi immediatamente conto di come va. Va da sé che in un'audizione individuale andrà praticamente sempre bene. In questo modo sia noi che il musicista sotto esame abbiamo eliminato un passaggio. Io e Florian ci conoscevamo già, abbiamo suonato insieme qualche anno fa a Belgrado, casualmente, e abbiamo subito trovato una sintonia. Capita che dopo il concerto si vada a bere una birra insieme, si parla del più e del meno, si familiarizza e possono nascere delle belle collaborazioni.

ADP: Nel concerto del 28 luglio sono rimasto letteralmente rapito dalla bellezza timbrica del vostro impasto strumentale, emerso nell'ottima acustica di un auditorium come il Forum Bertarelli. Il merito, immagino, non va soltanto agli strumenti che suonate ma anche a una particolare ricerca mirata a conseguire una determinata tavolozza coloristica.

OT: Una cosa va subito detta subito: questo posto suona in maniera formidabile. Non lo conoscevo e tra noi musicisti abbiamo fatto varie considerazioni su questo nel corso della serata. Si vede che il Forum Bertarelli è pensato da musicisti. A quanto mi ha detto Baglini, loro fanno questo Festival da molti anni e, per quello che ho capito, è frutto di un percorso a tappe che ha portato alla situazione attuale grazie all'apporto del direttore artistico e dell'artista residente, Maurizio Baglini stesso e Silvia Chiesa. Una collaborazione determinante perché ogni cosa sembra pensata apposta per fare musica, pensata da musicisti. S'intuisce che dietro questo auditorium c'è un pensiero ordinato e lucido, mirato anche a far sentire a suo agio chi è sul palco. È vero che durante le prove si fa di tutto per avere il suono desiderato, ma è altrettanto vero che poi devi confrontarti con la realtà del luogo dove sei. Ti può capitare di suonare in una chiesa con un riverbero di parecchi secondi o in un teatro, dove l'acustica è secca e il suono cade ai piedi dell'esecutore. Tu puoi fare i salti mortali, però a un certo punto devi scontrarti con la realtà oggettiva dell'acustica. Assodato che il Forum ne offre una magnifica, l'altra considerazione da fare è quella di cui parlavo prima, cioè il suono come "idea", nutrita dallo strumentista, che poi deve cercare di realizzarla. In quest'ambito ci sono tanti pensieri differenti, specialmente nella musica cosiddetta antica. A parte il fatto che oggi si esegue Berlioz con gli strumenti originali, restando entro i primi trent'anni dell'800 ci sono tante scuole di pensiero sull'emissione e l'impasto sonoro. C'è chi ricerca suoni molto piccoli e precisi, altri molto velati, altri ancora più voluminosi. Per uscire dalla logica degli strumenti ad arco, riguardo all'emissione dei flauti, per esempio, ne esistono tante su quello diritto e traverso. Il Rossignolo ha una sua idea di timbro che il Forum Bertarelli ha particolarmente agevolato, un qualcosa che dev'essere prima di tutto nella testa di chi suona. L'"astuzia" sta nel raggruppare dei musicisti che su questo versante sono concordi, in modo da rendere omogeneo e ben individuabile un certo tipo di suono. Anche sul clavicembalo, strumento la cui espressività sembra essere apparentemente limitata dall'assenza del piano e del forte, è possibile invece produrre tanti tipi di suono diverso. Alcuni maestri che ho avuto, la prima cosa che mi hanno detto è stata che innanzitutto bisogna pensare a un suono, dopodiché bisogna cercarlo sinché non lo si trova. Quando poi lo si ottiene si prova una grande soddisfazione.

ADP: Ecco, proprio su questo strumento ho letto delle analisi di musicologi che lo ritenevano meno potente ed espressivamente efficace del moderno pianoforte. Riflessione che, personalmente, non mi trova d'accordo. Girano evidentemente dei preconcetti sul clavicembalo?

OT: Si. C'è un po' sugli strumenti musicali (ma per fortuna è una visione che si sta lentamente mettendo da parte) l'idea che più ci si avvicina ai tempi moderni più questi diventano belli e migliorano. Se uno ci pensa, questo paragone non si fa in pittura o architettura. Chi dice che Keith Haring è più efficace di Giotto? Non esiste in realtà questo paragone, ma piuttosto che ogni epoca abbia le sue peculiarità. Non si pensa che Le Corbusier sia più evoluto di Brunelleschi. Paradossalmente, invece, gli strumenti musicali vengono considerati alla stregua dei chirurgici per cui, mentre prima negli interventi alla testa veniva usato il trapano, oggi si adopera il laser. Peccato però che gli strumenti musicali non siano propriamente questo. Si rischia altrimenti di affermare delle cose che, al di là del preconcetto, sono buffe, fanno ridere. Mi ricordo di aver sentito tempo fa un professore di composizione di un conservatorio dire in una conferenza, davanti a decine e decine di persone, che i metronomi di Beethoven sono evidentemente tutti sbagliati perché troppo veloci. Lo so che noi ridiamo però lui era serio. In realtà, provandoli su un pianoforte moderno effettivamente sono troppo rapidi. Lui diceva: "chissà perché", aggiungendo come giustificazione. "forse perché era sordo". A questo punto ci sarebbe stato da chiedergli se avesse mai messo le mani sul pianoforte di Beethoven... In questo ogni tasto pesava dieci grammi mentre in uno attuale ne pesa sessanta. Quindi se io indico 120 di metronomo, su un moderno strumento occorre una forza sei volte maggiore di quella necessaria sullo strumento i Beethoven. Partendo da premesse sbagliate ovviamente non si può costruire un'argomentazione plausibile. Con ragionamento analogo, si può essere indotti a ritenere sbagliate le ottave glissate indicate dal genio di Bonn nella Sonata Waldstein, se vengono eseguite su uno Steinway a coda. Attualmente questo modo di pensare si sta pian piano ridimensionando. Come per un altro tipo di opera d'arte, è giusto pensare che, per le sue diverse caratteristiche, uno strumento musicale sia adatto a composizioni di un certo periodo. Esistono delle possibilità o impossibilità a seconda del periodo di costruzione dello strumento stesso. Questo è il motivo per cui spesso oggi molti musicisti o studenti che si avvicinano agli strumenti storici, si accorgono che fare determinate cose, suonare un certo tipo di repertorio su questi è più facile e si possono fare, guarda caso, tutti quegli effetti richiesti dall'autore. Dopodiché subentra il possesso della tecnica giusta. Non è che avere uno strumento ad arco con le corde in budello ti fa diventare automaticamente un credibile interprete di Bach. Ogni particolare di cui stiamo parlando è ovviamente interconnesso con tutti gli altri, alla fine si forma un unico grande quadro.

ADP: Parliamo di dischi. Da poco avete siglato un accordo discografico con Sony Classical International. Il primo frutto è stato l'incisione del Germanico, opera da voi recentemente riscoperta e attribuita a Georg Friedrich Händel. Il vostro ultimo disco "Telemann Virtuoso" ha riscosso, al pari del citato Germanico, un ottimo successo di pubblico e di critica. Quanto è importante per voi la stratificazione della memoria consentita da una registrazione discografica?

OT: La discografia è un tema complicatissimo. Oggi, rispetto a quando c'era Rubinstein, è cambiato tutto perché è diventato per certi versi facile registrare un disco. Fare riflessioni sull'argomento senza tenere conto di questo dato sarebbe stravagante. Io penso che questo, ma anche il concerto, sia come la fotografia di un momento. Si studia una determinata cosa ed è bello poterla fissare nel percorso evolutivo di un artista. Poi magari la si ascolta tempo dopo e viene voglia di fare cose diverse. L'interprete è una persona, come tale perciò soggetta a cambiamenti nel tempo, e può arrivare a scoprire cose che prima non sapeva. A me piace il versante discografico perché è completamente diverso fare un disco o un concerto, richiede una preparazione differente. Ci costringe, ci stimola a pensare a più aspetti. Il nostro gruppo ha iniziato vent'anni fa a registrare, con un disco di madrigali di Orazio Caccini. La famiglia Caccini era originaria di Montopoli in Val d'Arno, dove per'altro abito io. In questo CD commemorativo ci fu data la possibilità di registrare questi brani e noi fummo felici dell'occasione. Tuttavia, dopo di questo il repertorio madrigalistico è un po' uscito dai nostri radar. Il lavoro del gruppo è stato molto più ampio sul versante strumentale o comunque vocale-strumentale. È arrivato di recente questo rapporto con la Sony International, rivelatosi molto gratificante perché si ha a che fare con professionisti molto seri. Senza voler far torto a nessuno, si tratta di persone normali, con cui si può parlare tranquillamente di progetti. Le cose che a loro non piacciono ce le dicono, motivando sempre con grande franchezza le ragioni. In questo modo noi siamo aiutati nel fare le nostre proposte. Se un dato progetto non viene avallato, sappiamo che dietro non ci sono motivi misteriosi. La loro sede amministrativa è in America, quella artistica in Germania. Ogni tanto facciamo delle gite per andare a trovarli o li sentiamo, abbiamo comunque in sede i nostri referenti. Il Germanico è stato in realtà l'occasione per conoscere quest'etichetta discografica, un progetto diventato un caso internazionale che non so se lei abbia avuto modo di seguire, di risonanza veramente spropositata. Sono sorte a riguardo fazioni di sostenitori e detrattori ma, secondo me, non era proprio il caso di metterla su questo piano perché nessuno voleva dividere il mondo musicale in due. Il Rossignolo è impegnato in una ricerca che va avanti dal 2007 e che occasionalmente dà dei frutti. Una parte del nostro lavoro è quello della ricerca, la portiamo avanti nei ritagli di tempo tra concerti e attività varie, dedicandoci a quelle opere che si ritiene siano andate perdute. Così ci siamo imbattuti in questo manoscritto molto importante, conservato nella biblioteca del Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze, che era tra l'altro sotto gli occhi di tutti ma nessuno aveva mai considerato, anche perché era catalogato in maniera sbagliata. Siccome io, quando faccio questo tipo di lavoro, non mi fido mai, sono andato a verificare la scheda. Si pensava fosse un'opera già conosciuta di Händel. Era semplicemente successo che chi l'aveva catalogata, aveva scritto Il Germanico seguito da Arminio, probabilmente in base al fatto che i personaggi del dramma sono gli stessi. Non per dare colpa al bibliotecario, che magari può essere un grande esperto di Puccini ma trovarsi sprovveduto di fronte a una composizione di Händel. Ovviamente non è tenuto a sapere tutto. Anche su questo si è scatenato un vero putiferio. Mi sembra che ci sia a volte nel mondo musicale, come in altri ambiti, un eccesso negli atteggiamenti. Mai che si affronti un argomento in maniera rilassata e tranquilla.

ADP: Non che io voglia fare l'avvocato del diavolo, ma credo che alla base di questo modo di fare ci sia il fattore invidia. Lei ha fatto una cosa molto bella e importante e magari qualcuno non l'ha digerito.

OT: Ma si, capisco perfettamente, non sono un ingenuo e lo metto nel conto. Però, tutto considerato, mi sembra che in questo caso si sia  comunque esagerato, soprattutto da parte degli studiosi italiani. Nella "querelle" le posizioni più equilibrate sono state espresse dai musicologi inglesi, per'altro i maggiori esperti di Händel, parlo di Winton Dean, Anthony Hicks, Donald Burrows e altri grandi esperti händeliani. Tutti sono stati di una cordialità ed equilibrio splendidi nei nostri confronti. Quelli invece più aggressivi sono stati proprio gli italiani, laddove il fatto che la scoperta sia stata fatta in Italia da ricercatori e musicisti italiani, forse avrebbe dovuto indurli a una gestione più gioiosa dei loro giudizi. In tutta la vicenda la Sony ha rappresentato un elemento più che positivo, loro hanno ascoltato questo progetto, lo hanno gradito accogliendolo e il CD è andato molto bene. Da qui è nato un rapporto di fiducia e collaborazione reciproche.

ADP: La Sony Music, una delle tre più grandi etichette discografiche nell'industria musicale mondiale, tra l'altro dispone di mezzi tecnici di primissimo livello...

OT: Certo. Io purtroppo non sono così esperto di tecnica della registrazione ma, per quello che posso dire dal punto di vista dell'approccio all'opera, alla sensibilità con cui affrontano le cose, non posso parlarne che in termini elogiativi.

ADP: Che emozioni le ha provocato e come giudica una manifestazione di ampio respiro come l'Amiata Piano Festival?

OT: Ne riparlavo anche stamani, confermando che le sensazioni sono tutte positive. Per la nostra esperienza non si riesce a trovare di meglio. È un ambiente molto rilassato, il posto è magnifico, l'auditorium strepitoso per cui è davvero un problema suonare male. Hanno fatto e continuano a fare una cosa mirabile, che suscita tutta la mia ammirazione. Maurizio Baglini è di Pisa e io abito in quella provincia, a Montopoli in Val d'Arno; una delle prime cose che mi ha detto è stata: "vedi, io sono di Pisa e tu sei in provincia, non ci si vede mai, si deve sempre suonare a giro qua e là nel mondo ma perlomeno si è fatto qualcosa qui. Mi è toccato venir via dalla mia città per farlo". Ci sono stati dei periodi in cui Il Rossignolo non ha mai suonato in Toscana perché non ci hanno mai chiamato. Ultimamente però qualcosa è cambiato. L'anno scorso abbiamo suonato quattro volte in questa regione e l'anno prossimo andiamo proprio a Pisa, ai concerti della Normale e anche ad "Anima Mundi" nel Duomo. È curioso però abitare in un posto e non suonarci praticamente mai. "Invece qui", diceva sempre Baglini, "abbiamo creato un Festival che sentiamo nostro e curiamo con grande amore". Questa sensazione positiva è stata condivisa immediatamente da tutti i componenti del gruppo. L'accoglienza è fantastica anche nei piccoli particolari, nei camerini ci sono le macchine per fare il caffè e i biscotti. Potrà sembrare un dettaglio irrilevante ma non lo è perché è sintomo di un trattamento affettuoso per l'artista che viene invitato.


Alfredo Di Pietro

Agosto 2018


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